venerdì 12 dicembre 2008

Gioachino Belli era un fijo de...



1. Presentazione

Gentili Signore e Signore, caro pubblico, stasera parleremo di Gioachino Belli, grande cantore di Roma, anzi della plebe di Roma del suo tempo ,ovvero la prima metà dell’ottocento , la Roma analfabeta del papa-re, di Mastro Titta, di Pasquino , che abbiamo visto riprodotta nei film di Luigi Magni . Com’è noto il suo grande affresco, che si può paragonare ad una sorta di Commedia dantesca laica , e infatti sarà chiamato il “Commedione”, assume il valore di una rivelazione e di una testimonianza universale di un popolo reietto e oppresso.
Ma al riguardo devo fare una premessa , credo necessaria. Chiunque abbia avuto a che fare con Belli, a livello di studio, d’insegnamento , o di curiosità artistica, come in questo caso, è andato incontro a grosse difficoltà, sia legate alle contraddizioni del personaggio, che alla sua lingua tutta particolare, un dialetto romanesco non facile , colorito, a tratti volgare, e perfino osceno, come l’era duecento anni fa , e come lo è , in gran parte , anche oggi , ove non sia purgato, edulcorato, reso potabile con qualche espediente , ma in questo caso perde in vivezza, naturalezza, autenticità, energia, vitalità, espressività. Noi vi parleremo di Gioachino Belli così com’è, nudo e crudo, ma non solo di lui . Come vedete c’è una band, la KiwiBand di Casal Palocco, costituita da Ezio( chitarra) Piero( batteria e vocalist) e Rino( tastiera), che canterà delle canzoni rigorosamente romanesche, canzoni conosciute da tutti , ma anche con una novità assoluta costituita dal leit- motiv , il gingle della serata…Gioachino Belli era un fijo de…C’è anche una splendida attrice, Marianna Fedele, che svolgerà il duplice ruolo contrapposto , ma direi fino ad un certo punto, di amante del poeta , la famosa Cencia, e di antagonista dello stesso , nel senso che avrà l’ingrato compito di dare addosso al poeta, e c’è un artista, Giacomo Lombardozzi, che è colui che ha realizzato il disegno di copertina…
Uno dice Gioachino Belli e rivede la Roma autunnale delle fontane e dei pini di Respighi con la musica sonora, che è una distesa di balconi e di alberi con le foglie dei platani sul lungotevere che battono le mani , la Roma dei pretini e dei marinai che sciamano per San Pietro e Castel Sant’Angelo , la stola e il solino, la croce e il cannone, l’incenso e l’odore di polvere da sparo, i topi e i gabbiani, la spada e la sete , le metamorfosi assurde , la nostalgia del mistero , le donne inginocchiate e i mattini che precipitano dentro di te, la Roma di quelle giornate meravigliose, di quelle giornate così splendidamente romane che perfino uno statale di infimo grado , be’ , puro quello se sente arricciasse ar core un nun socchè , un quarche cosa che rissomija a la felicità...
Ma ora, gentili signore e signore , il tempo stringe, iniziamo, cerchiamo insieme di stabilire chi era effettivamente Gioachino Belli…Er Belli era…..

LA BAND CANTA IL GINGLE



2. SAINTE - BEUVE (EZIO)

Extraordinaire ! Merveilleux !, io ogni volta che sento i suoi versi m’incanto, starei ore e ore ad ascoltarlo. Chiudo gli occhi e mi ritrovo a Roma, a Trastevere coi suoi colori , i suoi odori e i suoi turgori.
Avete un grande poeta , a Roma , un poeta originale : si chiama Belli ( o Belì) . Gogol me ne ha parlato a fondo. Scrive sonetti in dialetto trasteverino, ma dei sonetti che si legano e formano un poema: sembra che sia un poeta raro , nel senso serio del termine, pittore della vita romana. Gogol mi ha parlato d’un dialogo tra una madre e una figlia dalla finestra , molto buffo. Non pubblica , e le sue opere restano manoscritte . E’ sui quaranta: piuttosto malinconico di temperamento , poco estroverso. A Roma è come per la statua di Pasquino: togliete il coperchio , il sopra, andate al torso: ritroverete il più mirabile antico.








3.AUTORE
E fu una profezia, questa nota che il grande Charles Sainte-Beuve scrisse tornando da Roma a Marsiglia nel 1839. Era lo stesso letterato che aveva scritto , con acutezza e cattiveria, che “ Roma non è altro che una città di provincia , attraversata dagli stranieri”. In quelle poche righe, poi dilatate in una lettera e in una memorabile recensione, troviamo individuati i gangli del caso Belli: il carattere organico, poematico, dei sonetti ; la grandezza della sua poesia ( un poeta vero, un poeta popolare) , il fondo malinconico che serpeggia sotto la superficie comica, la condizione di clandestinità, il senso del sublime…Gogol, Sainte Beuve e altri mistici pellegrini del viaggio in Italia, allora di moda, cercano una città sepolta e scoprono invece , nei suoi versi, la voce di una città viva, fatta di carne e di nervi, di sangue e di sogni., una città sublime e stracciona , urbe imperiale diroccata, cuore della cristianità immiserita a borgo, luogo mentale di un ‘opera che è insieme realistica e simbolica, fisica e metafisica, Gerusalemme e Babele , che lui ama e odia, ed è costretto a correre continuamente dal sacro al profano, dai sublimi spazi dell’eternità al fango della cronaca, da dove nascono questi singolari fiori del male, che non danno scampo a nessun essere umano, a partire dal peccato originale d’Adamo ed Eva. Che il Belli fotografa prodigiosamente in uno scatto quasi irrelato, metafisico, ecco Dio il padrone del Giardino , il Dio che non perdona , che : appena che a maggnà l'ebbe viduti,/Strillò per dio con quanta voce aveva:"Ommini da vienì, sete futtuti"…
Oppure rimeditano il Qoelet, Giobbe , Leopardi e Quevedo, come ne “La vita dell’omo”, esemplare per la composta e insieme drammatica recitazione di eventi, che partono dal grembo materno e vanno oltre la vita. Qui il Belli , in quanto a pessimismo sulle sorti dell’uomo, supera ogni limite possibile.


Nove mesi a la puzza: poi in fassciola
Tra sbasciucchi, lattime e llagrimoni:
Poi p'er laccio, in ner crino, e in vesticciola,
Cor torcolo e l'imbraghe pe ccarzoni.

Poi comincia er tormento de la scola,
L'abbeccè, le frustate, li ggeloni,
La rosalìa, la cacca a la ssediola,
E un po' de scarlattina e vvormijjoni.

Poi viè ll'arte, er diggiuno, la fatica,
La piggione, le carcere, er governo,
Lo spedale, li debbiti, la fica,

Er zol d'istate, la neve d'inverno...
E pper urtimo, Iddio sce bbenedica,
Viè la morte, e ffinissce co l'inferno.


Belli saprà farsi interprete sincero e giusto, senza partigianerie o infingimenti , della sostanza più genuina del suo popolo , di cui dipingerà , come nessun altro , vizi, e virtù, nascita e morte , consegnandolo così alla eternità umana della poesia fino al “giorno der giudizio” , che s’apre con un epos michelangiolesco e sonorità barocche di una naturale fastosa grandiosità tutta romana , e si chiude con una sinestesia dantesca quasi surreale , e un finale ambiguo e inquietante.


Cuattro angioloni co le tromme in bocca
Se metteranno uno pe ccantone
A ssonà: poi co ttanto de voscione
Cominceranno a ddì: "Ffora a cchi ttocca."

Allora vierà ssù una filastrocca
De schertri da la terra a ppecorone,
Pe rripijjà ffigura de perzone,
Come purcini attorno de la bbiocca.

E sta bbiocca sarà Ddio bbenedetto,
Che ne farà du' parte, bbianca, e nnera:
Una pe annà in cantina, una sur tetto.

All'urtimo usscirà 'na sonajjera
D'angioli, e, ccome si ss'annassi a lletto,
Smorzeranno li lumi, e bbona sera.



I sonetti , o il Commedione , questo monumento che Gioachino Belli fa della plebe romana , non sono una teatrale catarsi del Belli-giullare , né una salutare liberazione nel piacere anarchico e nello sregolamento dei sensi, ma la denuncia e insieme la condanna di un moralista di quel caos babelico che è la commedia romana che si svolge da tempo immemorabile , tra cronaca e metastoria, in quella stalla e chiavica der monno che è la città eterna… L’eterna Roma alessandrina e babelica , la sfaticata Roma dei gatti e dei papi, dei cardinali e delle mignotte , la Roma centro di ogni confusione linguistica e di ogni promiscuo disordine , curia-lupanare e tonaca-bordello; questa Roma gregoriana del Belli dove la popolana ha il piglio della matrona e dove lo sguardo corre vertiginosamente dal sublime al basso , come dal basso al sublime, dove la rovina romana e la chiesa barocca ricordano quotidianamente lo scontro fra caduco e l’eterno , viene rievocata da un altro grande moralista ilare e ferito , Carlo Emilio Gadda , che la descrive nel “ pasticciaccio” come una sorta di nuova Babele del ventennio fascista:

“ Furti ,cortellate , puttanate , ruffianate, rapina , cocaina , vetriolo veleno de tossico d’arsenico per acchiappa’ li sorci , aborti , manu armata , glorie de lenoni e de bar, giovenotti che se fanno paga’ er vermutte da una donna, che ve ne pare?”

Ma c’era stata ancor prima la Roma del ghetto di Zanazzo, e poi la Roma delle serenate e di Villa Glori del Pascarella , e quella aforistica arguta tutta bonaria satirica da caffè e da portineria del Trilussa, e la Roma degradata e fantasmica di Scipione , quella torbida di Moravia, la Roma cruda di Pasolini , la Roma barocca dolce-vita , di una sensibilità tutta femminea,di Federico Fellini, fino alla Roma di oggi delle puttane di Tor Sanguigna , o “de scemo de guera” di Ascanio Celestini ..Ebbene, senza il Belli , punto fermo e centro motore , strada maestra e pietra angolare di tutto , modello inarrivabile, non ci sarebbe stato niente di tutto ciò . E non lo dico io , ma quel geniale regista metà romagnolo e metà romano che è Fellini , descrivendola nel discusso film omonimo , una Roma turgida in cui la fissità mortuaria della pietra si confonde
con l’empito sguaiato dell’ingiuria , la roma-rifugio degli increduli, la roma-antidoto alla solitudine dell’uomo , la roma -sospesa tra il rubicone e la talpa della metropolitana, la roma -ventre di vacca , ma anche roma-utero nel quale rientrare ,la mamma-roma ma anche la roma tutta humour e malinconia di Attalo , la Roma disperante del traffico che tutto paralizza, la roma delle sfilate di moda e dei carri armati , la roma delle battone di tutti i colori e di tutte le razze , la roma che inghiotte gli uomini e li flagella in un fangoso trionfo , la Roma che non si può mai veramente conoscere , la Inconoscibile, la romaccia , mito antichissimo e insieme moderno, la Roma di Petrolini dallo sguardo lunare, Gastone, Nerone, lo scettico blu, ma anche l’ironico e sentimentale compagno di viaggio autore di una canzone che ancora oggi cantiamo volentieri tutti in coro…
Band : Tanto pe cantà


4.MARIANNA:

Signore e Signori, gentile pubblico, noi stasera siamo qui per uno spettacolo, e va tutto bene , non andiamo troppo per il sottile con la storia , la geografia e la filosofia, le simmetrie e le parabole , i triangoli rossi e neri , ecc. , ma per onestà intellettuale , come si dice in questi casi , dobbiamo e vogliamo chiederci chi era “realmente” Gioachino Belli , questo dottor Jekyll che improvvisamente scopre di avere dentro di sé una specie di Mr. Hyde plebeo , metà comico e metà tragico, pieno di livore, rancore e parolacce a go go , che sferza tutto e tutti con la frusta della sua satira feroce. Ricordiamo che il suddito Belli era un impiegato dello Stato Pontificio , un uomo timorato di Dio , tutto casa e chiesa , chiuso , introverso ,musone, pavido , tmoroso , un uomo che nei momenti cruciali delle grandi rivolte e delle guerre ( vedi ad esempio nel 1831, nel 1848, o nel 1859 ) brilla per… la fuga verso casa, dove si chiude a tripla mandata e si mette a letto con la febbre altissima , e per somma prudenza si astiene da tutto , perfino dallo scrivere versi , l’unica cosa che gli riesca di fare in modo positivo …. Per il resto , un uomo , ahimè, assolutamente mediocre , opportunista , arrivista , che sposa una ricca vedova senz’amore , al solo scopo di potersi garantire una vita agiata , e dedicarsi alla sua amata letteratura , all’ Arcadia , per sfornare opere come “Toeletta”, “Laude delle frittelle” , i “Salami di Pindo” , eccetera , opere con cui delizia i soci dell’Accademia Tiberina , firmandosi Tirteo Lacedemonio.. Ma in realtà quella vuota e inutile Accademia gli servirà per altre cose più pratiche , soprattutto , per fare conoscenze prezzolate , uno stuolo di conti marchesi e monsignori , abati e abatini , che gli saranno assai utili per ottenere quel comodo posticino statale di cui abbiamo accennato e poi per conservarlo , pur lavorando poco e male , e garantirsi una pensione per la vecchiaia. Ed è questo senso , a pensarci bene , che il Belli realizza il suo vero capolavoro. Nel settore pensionistico risulta infatti un vero artista , uno che probabilmente ha battuto tutti i record possibili , il guinness dei guinness.
State a sentire: ha avuto tre pensioni, lavorando, si fa per dire, una decina d’anni in tutto all’Ufficio del Bollo e del Registro, e la prima pensione - udite , udite! - gli fu data ad appena diciotto anni di età, dopo sedici mesi di servizio: altro che baby pensioni!...L’ultima a 56 anni , per malattia , dopo nemmeno tre mesi di servizio effettivo. Un uomo per bene, per carità, tutto letteratura chiesa , viaggi e …sesso .

E ciò grazie ai lasciapassare della generosa moglie Mariuccia, di tredici anni più anziana, che forse per tenerselo buono, gli toglieva tutti i capricci possibili: gli finanziava i costosi viaggi a Napoli, Genova, Venezia, Milano, per non parlare quelli interni allo Stato Pontificio ( almeno due all’anno ) nell’Umbria e nelle Marche, dove la moglie possedeva dei terreni. E tutto ciò sempre grazie ai beni di Mariuccia , che erano ingenti, e tuttavia non durarono molto all’assalto del vorace marito. E poi , la stessa Mariuccia , gli aveva fatto conoscere quella che sarebbe divenuta la sua amante e la sua musa , la frizzante marchesina marchigiana Vincenza Roberti, che era la figlia di una sua amica , e aveva ventidue anni meno di lei.
Insomma , Signore e Signori , siamo seri prima di parlare di un Belli alla Milton alla Byron , Belli “poeta maledetto” , o addirittura “moralista” , come è stato tratteggiato . Tucco ciò, francamente lascia alquanto perplessi, tenuto conto che tranne un breve periodo di cosiddetta presa di coscienza sociale e politica , derivatagli dalla sua visita a Milano , e presa di contatto con gli ambienti degli intellettuali milanesi , si dimostrerà per tutta la sua vita
sempre pigro, arrivista, codino, reazionario , antiprogressista , strenuo difensore del Papa , fino al punto da scrivere dei sonetti contro Giuseppe Mazzini e diventare , dopo il breve periodo della repubblica romana , bieco censore dello stato Pontificio : Metterà al bando il Macbeth di Sakespeare , il Rigoletto del Verdi , e tante altre opere di grandi illuministi. E le sue ultime opere saranno la traduzione delle preghiere della Beata Vergine e degli Inni Sacri .... E questo è lo stesso Belli che nella versione di un Mr. Hyde romanesco , aveva fatto ridere , ma era stato anche blasfemo e osceno la sua parte , tenuto conto che le cose che aveva saputo descrivere meglio di tutte , e con grande abbondanza di termini e particolari , sono gli organi sessuali maschili e femminili , che lui aveva chiamato rispettivamente : Il padre di tutti i Santi , e la Madre di tutte le Sante… Insomma, Signore e Signori, lo vogliamo dire , o no , chi era veramente Gioachino Belli ? …..

BAND: Leit motiv


5,AUTORE
Non voglio controbattere , perché questa non è la sede e soprattutto perché quel che conta in un autore sono le sue opere e non le sue piccole miserie umane, e queste opere - nonostante il suo sarcasmo, egregia signorina - ci dicono che Belli fu un grande poeta , un genio giustamente paragonato a un Goya , a un Boccaccio , a un Rabelais , un comico carnevalesco .
Uno dice Belli e dice i suoi sonetti , arte nella quale fu inarrivabile , invidiato perfino da uno come D’Annunzio, che lo riconosce come il più grande artefice della forma-sonetto della nostra letteratura, sono una festa liberatoria, l’abolizione di ogni gerarchia, la contestazione delle verità ufficiali, la maschera e il riso , il mondo alla rovescia, la parodia del sacro , l’ingiuria affettuosa, l’infrazione dei divieti verbali, le imprecazioni e gli spergiuri , il realismo grottesco l’iperbole oscena , il corpo come somma di protuberanze e orifizi, è vero, ma anche colui che dice la verità , che grida la verità sfacciata contro la tracotanza, l’ipocrisia e l’ottusità del potere , e qui la sua voce si fa grave , nel risentimento e nel sarcasmo, e il linguaggio si scrolla di dosso ogni ombra comica , si fa tragico , al pari di un Parini o Leopardi , come nell’affaticata figura del Ferraro, che conserva intera la sua attualità, anche ducento anni dopo, ai tempi nostri :


Pe mmantené mmi' mojje, du' sorelle,
E cquattro fijji io so c'a sta fuscina
Comincio co le stelle la matina
E ffinisco la sera co le stelle.
E cquanno ho mmesso a rrisico la pelle
E nnun m'arreggo ppiù ssopr'a la schina,
Cos'ho abbuscato? Ar zommo una trentina
De bbajocchi da empicce le bbudelle.
Eccolo er mi' discorzo, sor Vincenzo:
Quer chi ttanto e cchi ggnente è 'na commedia
Che mm'addanno oggni vorta che cce penzo.
Come!, io dico, tu ssudi er zangue tuo,
E ttratanto un Zovrano s'una ssedia
Co ddu' schizzi de penna è ttutto suo!




Uno dice Belli e dice Trastevere , ma dice anche Morrovalle , dove sta Cencia, la sua amante. Sì, anche lui , come Dante, come Petrarca, ebbe la sua Beatrice, la sua Laura. Si chiamava Vincenza Roberti , da lui chiamata “ Cencia” e fu la sua musa, a cui dedicò il suo “canzoniere amoroso” . Ma noi non vogliamo parlare di quello “ufficiale” , in lingua italiana , dove ci sono residuati arcadici, petrarchismi, marinismi derivati da Bernardo Tasso , dove c’è il ghigno di un Berni, l’empito del Monti, per non parlare dei prestiti di Properzio e di altri poeti latini ; no, noi parliamo di quella sorta di controcanto petrarchesco che la già ricordata marchesina Roberti fece esplodere in lui proprio quando sembrava che la sua stagione dovesse declinare in modo irreversibile, alla soglia dei quarant’anni. Siamo nell’estate del 1830 e Belli riscopre l’amore . Ed è una cosa tutta fisica, carnale, talora oscena , fatta di sangue e umori segreti portati al culmine , in cui l’ eros ha una voce volgare , plebea , una sonorita’ affannosa , come in un soffiare di sibilanti esse che s’avvolgono, s’ attorcono l’una nell’altra, come gli amanti nello spasmo d’amore:

che scenufreggi , sciupi, strusci e sciatti! /che sonajera d’inzeppate a secco!/ igni botta , peccrisse, annava ar lecco:/ soffiamio tutt’e dua come d’ gatti
e termina con un’eccitazione visionaria , degna delle migliori espressioni poetiche surrealiste dei poeti maledetti


e’ un gran gusto er frega’! ma pe godello

piu’ a ciccio , ce voria che diventassi

Giartruda tutta sorca , io tutt’ucello


Il gran merito di Cencia , dunque, fu quello di risvegliare in lui non solo i sensi e i sentimenti , ma anche quel formidabile cantore dialettale che minacciava di addormentarsi per sempre , senza aver scoperto la sua vera indole, la sua passione segreta , la sua vocazione , quella verso una città e il suo popolo, una tematica finita e infinita ….Dopo una visita a Morrovalle , nell’alcova dell’amante , che nel frattempo si è sposata con il dottor Pirozzi , un uomo di mondo , come direbbe Totò, che sa capire le situazioni e quindi non frappone ostacoli alla loro relazione sentimentale , il trentanovenne Belli esplode in una vera e a e propria furia creativa . E’ la fine dell’estate del 1830 , e in meno di un mese scrive cinquantanove sonetti , quasi tutti erotici, taluni davvero osceni . Li scrive in carrozza , da Morrovalle a Valcimara , al ponte della Trave, a Foligno, a Spoleto, a Strettita, a Terni, a Otricoli, Civita Castellana, Monterosi, Baccano, La Storta. “Vengo carico di versi da plebe, ne rideremo insieme scrive all’amico Francesco Spada. Nel secondo dei sonetti , A Nina , fortemente erotico, e abbastanza osceno , potrebbe configurarsi proprio la figura dell’amante , Vincenza Roberti, la sua “Cencia”...
Ma in realtà com’era Gioachino Belli come amatore ?. .. Sentiamo cosa dice l’interessata, Vincenza Roberti da Morrovalle, un paesino vicino Macerata , dove la marchesina viveva in un palazzo avito del XVI secolo , che ancora oggi ospita molti visitatori , probabilmente più per la curiosità di avere notizie sulla marchesina che per le sue qualità architettoniche , con la sua forma tozza , rozza, massiccia , incompiuta, una serie di finestre enormi , pesanti, con una leggera modanatura , e un unico grande pregio, un portale d’ingresso all’estrema destra di notevole pregio architettonico, da dove entrava e usciva la nostra marchesina Vincenza...Ma prego, Signora Marchesa….


6.CENCIA ( MARIANNA):
Ma cosa vuole che le dica?…Lei chiede a me com’era Belli come amatore , ma noi eravamo solo buoni amici , lo siamo stati per più di quarant’anni . Certo, ci volevamo bene, questo è vero , ma da amici …Ci si confidava un po’ tutto , ma la verità su di lui non è facile , la verità è che “Peppe” ( tutti lo chiamavamo così, Peppe e non Gioachino) era sconosciuto perfino a se stesso . Si tratta di un realtà intricatissima , fatta di contraddizioni, di ambiguità , di piccoli enigmi caratteriali… Peppe non era solo duplice, come ha detto qualcuno, ma molteplice….. Bisogna averlo conosciuto, come l’ho conosciuto io, per sapere che ci sono stati tanti Belli, a seconda delle stagioni . Quello ad esempio del 1821, quando lo vidi per la prima volta era un bel ragazzo, alto , magro, pallido, con un paio di baffi nerissimi , da intellettuale romantico, con ondate di capelli neri che gli coprivano quasi gli occhi, nerissimi, fiammeggianti , un naso pronunciato e una bocca carnosa ; insomma aveva fascino, era di modi gentili e declamava i propri versi con voce appassionata , uno che ci sapeva fare con le donne . Era la prima volta che venivo a Roma, al seguito di mia madre, la marchesa Marianna Betti , vedova Roberti , per sbrigare delle pratiche amministrative . Eravamo ospiti a Palazzo Poli , proprietà di una cara amica di mammà, Mariuccia Conti , che era stata la moglie del conte Pichi , e , dopo la sua scomparsa, aveva da poco aveva sposato un impiegato pontificio del Bollo e Registro, proprio la persona di cui noi avevamo bisogno per disbrigare le nostre pratiche . Peppe ci accompagnava in giro per i vari uffici , al mattino, e al pomeriggio ci faceva anche da cicerone . Ma Mammà si stancò presto e rimase a parlare con la Mariuccia dei loro vecchi tempi ( avevano la stessa età) , mentre io e Gioachino continuammo le nostre passeggiate romantiche a piazza di Spagna , dov’erano i frittellari e i popolani giocavano a morra nelle strade , ai Fori imperiali , al Colosseo , e a tutta quella parte di Roma che favorisce gli innamoramenti ….

BAND: ROMA NUN FA LA STUPIDA STASERA







7.AUTORE
Cencia aveva ventun’anni, Belli ventinove…La verità è che – la marchesina ovviamente non può ammetterlo - divennero amanti, con alti e bassi, come capita in tutte le relazioni sentimentali, anche quelle extraconiugali. Belli si recava a Morrovalle due volte l’anno e vi sostava anche un mese intero . Sospese le visite quando Cencia sposò , qualche anno dopo il dottor Pirozzi ; ma trascorso qualche tempo i due amanti ripresero a vedersi , perché il dottore era spesso fuori paese e si comportò sempre da marito discreto e liberale. Ma ci chiediamo. E Mariuccia ? , la buona Mariuccia che involontariamente gliela aveva messa tra le braccia , non sospettava proprio nulla? Era così candida, così ingenua la sua “Cicia” , a cui Gioachino scrisse centinaia di lettere per parlare , da perfetto ipocondriaco ed egoista qual era , solo dei suoi raffreddori , mal di testa , diete salassi , purghe , mignatte e vescicanti , ecc, oppure dei terreni , buoni fruttiferi e rendite catastali , senza mai dedicarle una frase d’amore , o un solo verso dei suoi cinquantamila e passa che compongono il suo commedione. Neppure da morta fu ricordata la povera Mariuccia, tant’è che non si sa nemmeno dove il marito l’abbia sepolta .
Ma com’era questa Mariuccia Conti , a cui Belli in fondo deve praticamente tutto e a cui nulla ha dato, tranne un figlio, Ciro, che venne su viziato, smidollato, pigro, nullafacente, neghittoso, vile, senza alcun ideale ,senza volontà, insomma assai peggio del padre?
Un ritratto ce la mostra elegante e perfino graziosa, con un volto arguto e dolce ad un tempo, animato da due grandi occhi bruni, pieni di espressione, ma era un ritratto a pagamento. I suoi biografi oscillano tra un’esaltazione della sua semplicità e la constatazione che se non è bella, è almeno di buon cuore , e per di più ricca e di spirito. Insomma non è certo una Venere, però è ricca, ha un carattere amabile , e le fa un po’ da madre , da moglie e da infermiera , a seconda della bisogna. Inoltre lo idolatra , lo ritiene il più grande poeta vivente e gioisce dei suoi trionfi letterari , e quando può lo lascia libero , vede tutto , e lascia correre , gli fornisce gli scudi necessari ( e sono tanti, più del doppio di quelli che lui percepisce dallo Stato ) per i suoi viaggi annuali e per i suoi sfoghi sessuali. Una moglie perfetta per lui, una vera manna caduta dal cielo, in tutti i sensi. Dalla cella dei “Cappuccini” , o dalla fetida stanzetta della zia Marietta, dove il giovane Belli alloggiava , era andato a Palazzo Poli, in un lussuoso alloggio , con tutti i conforti e la servitù, nello stesso stabile dove abita la principessa Zenaide Wlkonskkj nel cui saloto egli conoscerà le più eminenti personalità europee, Viazemsky e Gogol . Sedici sale , una grande galleria di ingresso , lo scalone d’onore , la stanza del biliardo con ben 47 dipinti , consoles, cantoniere, bureaux, maggiolini statue, tendaggi , perfino le porte sono laccate in perla e oro , e i servi hanno una livrea talmente lussuosa da destare stupore, c’è un capo dei domestici, un maggiordomo, come nelle famiglie dei cardinali.

Abbiti , argenterie, casa a palazzo, carrozze, servitù, pranzi in campagna…Lui vede tutto e nun dimmanna un cazzo . La previdenza vie’? lui l’ariceve . Er camminuccio fuma ? e quello magna. La fontanella butta? E quello beve.



Insomma, qualche rimorso di coscienza, ce l’aveva, di tanto in tanto, il nostro Gioachino. Ma c’è da dire , a sua scusante , che aveva passato un’infanzia e un’adolescenza davvero difficili e miserabili , vero Signora Marchesa?.


8.CENCIA (MARIANNA)
Sì, è vero. Il padre di Gioachino , Gaudenzio, è lungo giallo cupo gretto, tirchio, di vedute ristrettezze, severissimo nei confronti dei figli, a cui non fa mai una carezza , un gesto affettuoso , non dice una parola buona , gentile ; la madre , al contrario, è molto bella , una napoletana tutta luce, calore, espansività. Ma Gioachino da lei prenderà molto poco, è introverso , sempre immusonito, ingrugnato, scontento, con una dose eccessiva di orgoglio e amor proprio, ed è anche un po’ presuntuoso, dato che ritiene la propria opinione come la migliore di tutti. Ma è di una grande sensibilità e immaginazione , un osservatore attento, finissimo, spietato, fin da piccolo, è precocissimo e già nutre le proprie malinconie, come fanno tutti i poeti . Lo pervade anche un torvo senso di insicurezza , e una totale sfiducia negli uomini, che lo accompagnerà per il resto della sua vita. Quando era appena un ragazzino di sette anni, capitò che l’avarissimo padre Gaudenzio smarrisse in casa un baiocco di rame ( l’equivalente di cinque centesimi di euro) e allora esperì delle indagini in famiglia per scoprire il colpevole: la moglie, la bellissima Luigina , Carlo, il fratello minore di Gioachino e lo stesso Gioachino. Flaminia , la più piccola della famiglia, non era ancora nata. Era accaduto che il piccolo Gioachino il baiocco l’aveva effettivamente trovato , il giorno prima , e l’aveva riposto da qualche parte. Messo alle strette il bambino confessò. “ Sì, sono stato io”. Il padre, a questa ammissione non ci vide più e cominciò a urlare come un ossesso che aveva allevato un ladro, un figlio ingrato, un mostro…Mentre lui si macerava sui libri mastri, il figlio maggiore ( il bambino aveva sette anni e quasi non respirava più per la paura) lo derubava. La casa dei Belli era in via dei Redentoristi, ma riescono a sentirlo fino all’Argentina. A questo punto , Gioachino, con la sua ipersensibilità, si vede già squartato da Mastro Titta , il boia, che ha visto in azione proprio pochi giorni prima , sulla pubblica piazza , mentre mazzolava e squartava un povero Cristo, un certo Marco Rossi , solo per una questione di corna in famiglia.
Gaudenzio stabilisce che il figlio debba restare chiuso tre giorni in una camera oscura, col trattamento di pane e acqua. Al momento della liberazione, il bambino viene condotto nella sala grande, dove tutti i parenti sono riuniti. “ Sei un ladro”, dice Gaudenzio a suo figlio , davanti a tutti. E lui , alla gogna, si batte il petto e dice: Sì, sono un ladro. Poi prende il baiocco e , in ginocchio, fa il giro della sala e chiede scusa a tutti i presenti. “Non lo farò mai più”.

9. AUTORE
E’ un trauma terribile e crudele che lascerà un segno indelebile nella psiche del poeta , e anche un oscuro sentimento di rancore verso il padre , un qualcosa di acre che lo accompagnerà sempre ; e non a caso la sola volta che si ricorderà del padre , nella sua sterminata produzione in versi , lo farà in modo da penderlo in giro. Il padre sarà da lui visto come una sorta di Abramo che sacrifica il figlio

Doppo fatta un boccon de colazzione
Partirno tutt'e quattro a giorno chiaro,
E camminorno sempre in orazzione
Pe quarche mijo ppiù der centinaro.
"Semo arrivati: alò", disse er vecchione,
"Incollete er fascetto, fijo caro":
Poi, vortannose in là, fece ar garzone:
"Aspettateme qui voi cor zomaro".
Saliva Isacco, e diceva: "Papà,
Ma diteme, la vittima indov'è ?"
E lui j'arisponneva: "Un po' ppiù in là".
Ma quanno finarmente furno sù,
Strillò Abbramo ar fijolo: "Isacco, a tte,
Faccia a tterra: la vittima sei tu".


Dopo alterne vicende , legate sia a rivolgimenti politici ( siamo nel periodo napoleonico) , sia alla leggendaria avvenenza della madre d Gioachino , che ha intorno a sé sempre diversi spasimanti , la famiglia Belli si sistema a Civitavecchia dove Gaudenzio ha un onorevole incarico tra il direttore della dogana e capo dei servizi commerciali. Fa delle speculazioni vantaggiose, si arricchisce, le cose sembrano andar bene , acquista anche una piccola flotta , e il piccolo Gioachino sogna un viaggio su una delle sue navi , ma le sue speranze vengono deluse. E subito dopo scoppia il colera , in cui perderà la vita il padre e verranno ridotti al dissesto finanziario. Tornano a Roma, con la madre incinta ( il fratellino di Gioachino, Antonio Pietro, vivrà solo per pochi giorni) , in una casa angusta e desolata in via del corso 391, da cui il Belli trarrà lo spunto per la celebre La famija poverella, dove s’avverte una risonanza di temi danteschi, in particolare del canto del conte Ugolino:

Si capissimo er bene che ve vojo ! / Che dichi, Peppe? Nun voi stà a lo scuro ?/ Fijo , com’ho da fa si nun ce ojo? / E tu, Lalla, che hai? Povera Lalla,/ hai freddo? Ebbè, nun mèttete lì ar muro:/ viè in braccio a mamma tua che t’ariscalla…

10.CENCIA (MARIANNA)
Gioachino ha tredici anni e si tuffa nello studio, capisce che il latino la filosofia la poetica e l’oratoria , gli studi che compie al collegio romano, non sono costrizioni ma strade fiorite per l’avvenire che sogna, diventare poeta. Sui quindici anni , coi caratteri più appariscenti del Poliziano e del Tasso comincia a scrivere i primi versi. Si applica forsennatamente allo studio con tutti i mezzi e ogni sacrificio , e riesce a primeggiare in quasi tutte le materie. Ma come sempre capita i successi gli alienano le simpatie dei compagni, e gli stessi insegnanti gli diventano nemici, così si inasprisce , il suo carattere si fa indocile e turbolento, pronto ad obbedire alle sollecitazioni dell’affetto, e ribelle invece di fronte alle minacce e al rigore.
Nel frattempo la madre si risposa con un ragazzo molto più giovane di lei, Michele Mitterpoch, ha poco più di vent’anni, lei trentacinque. E’ figlio di un pasticcere e abita nella medesima casa . Gioachino si sente tradito e umiliato da questo matrimonio , fugge di casa, e se ne va a zonzo per tutto il giorno sul Tevere, si rifugia sotto il ponte Rotto , dove vede i barcaroli che sciamano lungo il fiume. E assiste , col cuore in subbuglio , sconvolto , pieno di pietà e orrore , al ritrovamento di un cadavere affogato da parte di un barcarolo romano: si tratta di una giovane donna…


BAND: ER BARCAROLO

11,AUTORE:
Belli scrive la sua prima poesia in romanesco a ventisei anni , è domenica, 23 febbraio 1817 , sono le 17,30. Lo annota lui stesso . Era un maniaco, annotava tutto , anche i centesimi che spendeva per acquistare le caldarroste. La poesia è intitolata “Alla Sora Ninetta” , la madre del suo fraterno amico Francesco “Checco” Spada, e non ha nessun pregio , ma è una sorta di incipit del famoso Commedione.Gli ci vorranno più di dieci anni , per scrivere ancora in romanesco , e la svolta decisiva sarà la conoscenza del Porta, delle opere del Porta , che elevano il dialetto alla stessa dignità della lingua italiana. Da Milano torna a Roma un altro Belli , con una rivelazione... E’ come se vedesse Roma per la prima volta , nuova diversa viva sanguigna.
In quel periodo di trasformazione, metamorfosi , Belli annota nel suo zibaldone un pensiero d’Erbigny : qualunque strepito possa farsi in un impero, esso non è mai così pericolosa quanto il silenzio dei preti. E’ un Belli decisamente nuovo, estremista, libertario , in linea con Stendhal, Heine, Tommaseo, Poerio, cioè le punte più avanzate della cultura europea . Intanto aveva lasciato l’Accademia Tiberina e aveva fondato una società di lettura insieme ad un gruppo di amici , andava nelle osterie, prendeva appunti, parlava il più possibile con la plebe, si era messo all’ascolto delle loro problematiche , ne aveva studiato il linguaggio, la parola , essenzialmente orale , era diventato quasi senza accorgersene come “diabolus in ecclesia “ , nella sua città, e diabolica era quella voce viscerale che saliva a scuotere il benpensante timorato di dio , il non eroico impiegato. Era la Roma sboccata e oscena dei suoi sonetti più arditi, “ scastagnamo ar parlà, ma aramo dritto, dirà per giustificarsi , traducendo il motto di Ausonio : lasciva nobis pagina, vita proba. Quasi senza accorgersene era divenuto la voce segreta di un popolo
D’ora in poi i suoi personaggi non saranno più soltanto abati e abatini, nobili e grassi borghesi, ma saranno , in presa diretta , quelli elencati in una lettera all’amico Giovambattista Mambor: Caterina la guercia, Rosa ficamoscia, Nunziatella de li sordati, la Cicoriara de ponte Rotto, la Peracottara de li paini, la fija zitella de Salataccia, Tribuzzia la sediaria der catichismo, Menica la bagarinella de Mercato, Nanna quattrochiappe. E poi lo Stracciaroletto de Borgo, Gurgumella, Panzella, Rinzo,Chiodo,Roscio, Cacaritto,Puntatacchi, Deograzzia ,Bebberebbè, er Cecchetto de le quanrantora , Feliscetto der mannolino, Giartruda Ciancarella, la moje der froscio...
E tanti , tantissimi altri personaggi dei suoi sonetti, del “Commedione”, personaggi che ritroviamo sempre nella tradizione romanesca delle poesie e delle canzoni , fino ai tempi nostri, con le loro storie d’amore, le gelosie, le tragedie, Lella , la moje der cravattaro.
BAND: LELLA


12,MARIANNA:
La verità è che Belli si mette la maschera per sputare il proprio veleno, come una vecchia vipera rancorosa e vendicativa . Belli crea apposta una lingua nuova , senza memoria, al solo scopo di poter palesare le proprie insoddisfazioni , la propria scontentezza , perché non riesce a pervenire a nessun risultato sperato . In termini di lingua italiana, rimarrà il modesto, mediocre poeta accademico, arcadico … Intanto è invecchiato precocemente , magro pallido emaciato col viso grommoso, in cui gli si legge il suo senso d’insoddisfazione a lungo repressa, che pesa in tutta la sua vita . Non cerca simpatie, partecipazioni o solidarietà dal mondo che rappresenta . Ma in fondo perché rappresentare quella gente sconcia e analfabeta , una plebe sguaiata , lercia, affamata? A che cosa gli sarebbe giovato? Infatti rimane clandestino e firma le sue poesie con il nomignolo di Peppe er tosto . Rifugge da ogni identificazione, da ogni riconoscimento di sé , da ogni affermazione di valori individuali o collettivi. La sua letteratura non è quella del Porta , lui non cerca nessun ideale , nessuna illusione, Aveva pensato di pubblicarle queste poesie clandestine, - Ne rideremo insieme , aveva detto all’amico Checco Spada, - e quelle risa ci varranno a prepararci l’animo alle possibili sciagure che ci minacciano. Tutti i grandi lo avevano incoraggiato , da Gogol a Saint Beuve. Aveva preparato anche l’introduzione , sembrava una cosa fatta. Ma poi ci aveva ripensato , era sopraggiunto il vecchio timore tipicamente belliano: non è un cuor di leone, lo sappiamo Anzi, è tutto e il contrario. E allora prende l’antidoto e ritorna il dottor Jekill . Anzi, li vorrebbe bruciare, quei sonetti , lo mette nel suo testamento , e quando s’affaccia il colera a Roma , nel 1837 , brucia le minute . Ma gli originali li affida a monsignor Tizzani , un prelato illuminato, amico e protettore nell’età matura
Aveva fondato una società di lettura, che era anche luogo di aggiornamento e di dibattito, era la nuova accademia di trastevere , l’aula un’ osteria , la lezione gliela impartiva il popolo, perché


Certe cose la ggente ricamata
Nun le capissce e ffra noantri soli
Sé po’ trovà la verità sfacciata



Ma ora , ora sconfessava tutto, aboliva l’università delle osterie e rientrava nella sua vecchia polverosa accademia tiberina , anzi ne diveniva il segretario, poi il vice presidente , infine il presidente. Gioachino rientrava in sé, in quello che era sempre stato , codino, reazionario, bacchettone . Ma dietro c’era qualcosa.
Qual è la verità ? Che cos’è la verità? , dov’è la verità ? , com’è la verità?


La verità è comm'è lla cacarella,
che cquanno te viè ll'impito e te scappa,
hai tempo, fijjia, de serrà lla chiappa,
e storcete e ttremà ppe rritenella.
E accusì, ssi la bbocca nun z'attappa,
la Santa Verità sbrodolarella
t'esce fora da sé dda le bbudella,
fussi tu ppuro un frate de la Trappa.
Perché ss'ha da stà zziti, o ddì una miffa
Oggni cuarvorta so le cose vere?
No: a ttemp'e lloco d'aggriffa s'aggriffa.
Le bbocche nostre iddio le vò sincere,
e ll'ommini je metteno l'abbiffa?
No: sempre verità; sempre er dovere.

13.AUTORE
Uno dice Giuseppe Gioachino Belli e rivede il suo arcigno monumento a Trastevere di Michele Tripisciano, a cui si è ispirato il nostro Giacomo Lombardozzi. Belli con la tuba, il bastone l’atteggiamento del borghese in una roma senza borghesia. Uno dice Belli e rivede la città morta dove li cardinali ce stanno ariccorti cor barbozzo inchiodato sur breviario , come tanti cadaveri de morti , e nun ve danno più segno de vita sin che nun je se accosta er caudatario a dije¨ “Emintentessimo , è finita”.
Rivede la roma deserto , roccaforte dell’oscuramento, caposaldo dei privilegi e delle ipocrisie secolari , ma anche , la Roma festaiola , che fa bisboccia ad ogni occasione, la Roma de io le so certe cose, io so romano, la Roma de che ppe grazzia de dio noi semo romani, la Roma de passamo noi, la Roma de che
ce frega e che ce ‘mporta , la Roma dei magnaccioni, la Roma de Nannì e de le gite a li castelli.

BAND: Nannì , na gita a li castelli



14.MARIANNA
Per Belli il vento è cambiato. Mariuccia è morta , il suo patrimonio dissestato , e dietro la bara e il cadavere ancora caldo, ci sono in fila i creditori. E lui senza i beni della moglie è un uomo disperato, finito, altro che viaggi, altro che vacatio nelle osterie . Se se ne va rapidamente in miseria , è costretto a lasciare la lussuosa casa della moglie e andare a vivere in un misero buio appartamento , in affitto . Ma nonostante le ristrettezze non ce la fa , chiede aiuto agli amici. Chiede , ed è questa la terza volta, di essere riassunto dallo stato pontificio . Beneficia già di due pensioni, senza aver praticamente mai lavorato seriamente, ma non gli bastano. Viene riassunto , e dopo un paio d’anni , è di nuovo in pensione , avendo lavorato un paio di mesi in tutto . Finalmente si gode la terza pensione, e i 38 scudi, che gli consentono di vivere decorosamente. Siamo nel 1849 a Roma ci stanno i rivoluzionari, è il periodo della Repubblica , Belli si tappa in casa come al solito , in attesa di tempi migliori . E tuttavia non si farà scrupolo di chiedere a Mazzini ( che lo apprezzava per la poesia antipapalina “vita da cane” , e credeva che fosse uno dei suoi seguaci ) l’esonero del figlio Ciro dal servizio militare obbligatorio. Come vedete il tengo famiglia di Flaiano c’è sempre stato, non è vero professore Gnoli ?, lei che ha conosciuto bene il Belli e ne ha scritto la prima biografia, ci può dire qual era la vera voce di Gioachino Belli?

15.DOMENICO GNOLI ( EZIO)
Era la voce di un uomo il cui nome e i cui versi erano noti a tutta Roma, che riguardavamo come una gloria nostra, una voce che rallegrava gli altri senza aver modo di rallegrar se stesso. Spesso mi diceva : “ Caro Mimmo, conosco il tasto dell’ilarità , tocco quello ed esso fa l’ufficio suo, io rimango intanto freddo e malinconico”. Era ben infelice il suo stato , poiché fanaticamente devoto dell’altare e del trono, non poteva aprire bocca senza che un allegro stormo di sonetti fuggitigli dal nido gli svolazzassero intorno, ridendogli sul viso e canzonandolo ; erano gli audaci araldi di idee dalle quali allora aborriva

MARIANNA: A proposito , professore , ci può dire come recitava i suoi sonetti il poeta?


Ci si trovava spesso in casa di Monsignor Bonaparte, la sera, e dopo il caffè. E tutti chiedevamo al poeta di recitare i suoi sonetti proibiti. Lui si faceva un po’ pregare, ma alla fine accettava. Si metteva in capo un berrettino di seta nera , che durante la declamazione si rigirava sul cranio calvo .La sua voce era alquanto sommessa, con espressivo spianare e aggrottare di ciglia, col più puro dialetto trasteverino, e certe gradazioni di voce e inflessioni finissime , pigliavano un colore che, recitati o letti, non avranno mai più. Non era possibile non smascellarsi dalle risa , soprattutto per la serietà a cui atteggiava il suo volto sbarbato sul quale invano avresti aspettato un sorriso . E quei versi che declamava quasi a ritegno , come ad esempio “ Il papa non fa niente”, non c’era verso di farglieli ripetere una seconda volta… (Sottofondo musicale)
…Lo ricordo come fosse adesso, povero Belli, con quella ipocondria che gli grommava giù dalla faccia , con quel suo fare da misantropo , a fronte alta, la faccia lunga e piuttosto gialla che pallida , i movimenti penosi , come d’uomo che abbia il freddo nelle ossa , lenti e arguti gli occhi , e la voce, chiuso il collo dal suo cravattone nero . E gli crescerà vieppiù quel freddo nelle ossa , povero Belli , con una serie di lutti che non gli danno tregua. Gli muoiono uno dopo l’ altro le persone più care, il nipotino diletto , la giovane nuora Cristina , gli amici Biagini e Ferretti , che erano per lui come fratelli. E si deve occupare del figlio Ciro , che dopo la morte della moglie, rimane come svuotato, inebetito, depresso , incapace di fare qualsiasi cosa, e lui , ormai vecchio e mlandato, è costretto a prendersene cura e occuparsi anche dei tre nipoti . Quel freddo nelle ossa lo sentirà sempre , non riuscirà più a scaldarsi, povero Belli…

16.AUTORE
Già, il freddo nelle ossa . Forse gli veniva forse dalla memoria , quel freddo nelle ossa, dagli strati più profondi della coscienza , era il brivido della sua parola poetica , anch’essa cifrata all’insegna di un ‘enigma .Muore per un colpo apoplettico, mentre i tre nipotini , nella stanza accanto, stanno giocando. Lo trovano caduto a terra, esanime. Giacomo, il nipote più grande, va a chiamare il parroco, poi la cugina, la bella Orsola Mazio, che gli sarà di gran conforto , in quegli ultimi supremi istanti….Tutte le sue donne sono lontane, perdute in una dimensione favolosa. Mariuccia nei freddi regni della morte, Cencia nelle Marche, l’ultima in ordine di tempo, l’attrice Amalia Bettini si è sposata e vive a Bologna , e l’adorata nuora, Cristina, acnh’essa se ne è andata nel regno freddo della morte a soli trentasette anni. Solo Orsola si china su di lui e lo bacia sulla fronte. Gioachino , a quel contatto, apre gli occhi e sorride . Ora può andare , con quel viatico è meno triste partire. Quando viene il figlio, Ciro, è troppo tardi. (Sottofondo musicale)
Alle otto e trenta della sera del 21 dicembre 1863, esattamente 145 anni fa , il cantore della plebe di Roma va a raggiungere i suoi papi che ha satireggiato, e la sterminata teoria di principi e plebei fermati in eterno dalla sua penna. La sua salma viene portata al Verano, e posta in un loculo sul muro di cinta , a destra dell’ingresso principale. Solo 40 anni dopo i suoi resti verranno esumati e deposti al PIncetto nella tomba di famiglia. Checco Spada detta la frase per la funebre lapide latina .

“Qui giace Giuseppe Gioachino Belli , romano , esemplare nella pietà , integro nei costumi , aspro nell’ingegno . Eccelse nella poesia più varia , divertendo e, insieme, ammonendo”.

PRESENTAZIONE AL PUBBLICO DEGLI INTERPRETI


IN CORO: MA CHI ERA GIOACHINO BELLI ?.....

GINGLE

venerdì 28 novembre 2008

Primo Levi: Se questo è un uomo


1. Ne “I sommersi e i salvati”, ultimo libro di Primo Levi , che è stato riproposto da Einaudi in un nuova edizione , presentata al Massimo di Torino , con lettura di alcuni brani di Moni Ovadia, lo scrittore connota la conoscenza del tedesco come ciò che separava la vita dalla morte nel Lager. “Sapere il tedesco significava la vita.” Ma anche l’essere un valente chimico contribuì a salvarlo e a farlo entrare nel “Commando 98 di Chimica” anziché nel forno crematorio. E tuttavia sarà Dante con il Canto di Ulisse, uno dei più struggenti capitoli di “Se questo è un uomo”, a restituirgli il senso vivo dell’umanità solidarietà , della bellezza, l’amore per il sapere e la nostalgia per la casa natìa. E sarà la stessa figura omerica-dantesca di Ulisse che riemergerà dopo molti anni ( espresse il desiderio che fossero scolpite in greco sulla sua lapide le parole “pollà plankte” che definiscono l’eroe e la sua voglia di andare per il mondo ) , nella circostanza della sua tragica morte, avvenuta per suicidio ( si gettò nella tromba della scala del palazzo dove era nato e vissuto ) vent’anni fa, l’11 aprile 1987 , scomparsa che è stata ricordata con una serie di manifestazioni teatrali, radiofoniche, museali e perfino con un ‘opera lirica, “Passio”, del compositore spagnolo Luis de Pablo, che è stata eseguita in prima
mondiale dal maestro Gianandrea Noseda , “-… una musica che rispecchia fedelmente lo stile asciutto e distaccato, ma non scevro da tinte impressioniste di Levi... Una riflessione sull’umanità destinata a soffrire senza ragione , una musica intensa, di grande impatto emotivo , ma non di facile intesa”- presso l’Auditorium Rai di Torino , città in cui Levi era nato la sera del 31 luglio 1919. da un’agiata famiglia di ebrei piemontesi di solide tradizioni intellettuali.
Il padre, l’ing. Cesare , uomo vivo e vitale, straordinariamente versatile, estroverso , esuberante, è esattamente l’opposto di Primo , che è introverso, timido, di gracile costituzione fisica e di una sensibilità tutta particolare, e avverte nei confronti del vigoroso padre una costante soggezione , che si colora talvolta di paura e di ombrosi risentimenti. L’impossibilità di avere un rapporto di confidenza con il padre accentua la sua introversione, tende sempre più ad isolarsi, a vivere in un mondo tutto suo, carico di tensioni e di paura.

2.Fondamentale sarà per lui , in questa fase delicata dell’adolescenza , il vincolo affettivo che lo lega alla sorella che lo aiuta a superare l’ostacolo e le difficoltà del suo isolamento. Studia presso il ginnasio-liceo D’Azeglio e ha , per qualche mese , Cesare Pavese come insegnante di lettere. All’esame di maturità viene rimandato con tre in italiano. Non riesce a scrivere nulla sul componimento assegnato che ha per tema “La guerra in Spagna”. Consegna il foglio in bianco. Nel 1937 si iscrive alla facoltà chimica dell’Università di Torino , dove si afferma ben presto come il migliore del suo corso e consegue la laurea nel 1941 summa cum laude. Esercita subito la professione di chimico in condizioni di semiclandestinità (fin dall’ottobre del 1938 era stata emanata la “carta della razza”, una serie di provvedimenti legislativi e amministrativi anti-ebraici) , in una cava d’amianto a Balangero presso l’industria Wander di Milano. L’8 settembre 1943 lascia l’impiego e si trasferisce in Val d’Aosta , sopra Saint Vincent, dove viene in contatto con altri giovani appartenenti al movimento “Giustizia e Libertà”. Sono in otto, sprovvisti di mezzi e di armi , senza nessuna esperienza militare. Hanno solo esuberanza ed entusiasmo giovanile. Il 13 dicembre vengono catturati e portati ad Aosta , dove saranno sottoposti a interrogatori e maltrattamenti. Dopo due mesi di prigionia Levi ammette di essere cittadino italiano di razza ebraica e viene così inviato a Fossoli , presso Modena, campo di raccolta degli ebrei.


3.Il 22 febbraio 1944, insieme ad altri seicentoquarantanove compagni di sventura , viene deportato ad Auschwitz. Soltanto tre di essi, compreso l’autore di “Se questo è un uomo”, sopravvivranno al Lager. E lo stesso Levi dirà paradossalmente che “ è stato il
lager a rendermi forte; l’ossatura morale mi è venuta dopo, dopo di aver raccontato e scritto , dopo di essermi sentito depositario di un’esperienza orribile e fondamentale, che era necessario diffondere e commentare. Solo dopo che l’umanità mi era stata negata , e dopo averla conquistata scrivendo, mi sono sentito uomo nel senso del libro”
Ma non è vero: Levi riuscirà a sopravvivere all’inferno del Lager grazie alla sua forza morale e di carattere , alla sua profonda maturità, alla sua intelligenza , alla sua coerenza interiore, ma soprattutto – come abbiamo detto - furono gli studi di chimica e la conoscenza del tedesco a salvargli la vita e a farlo diventare il massimo scrittore – testimone del XX secolo, ad iniziare dal suo primo libro, che Levi comincia a scrivere subito dopo la deportazione , al ritorno a Torino, ( siamo alla fine del 1945 ) . Ma quei ricordi di prigionia non interessano nessuna delle grandi case editrici , né Natalia Ginzburg, che lavora per Einaudi, a cui Levi si rivolge. Sarà il piccolo editore Silva a pubblicare “Se questo è un uomo” in 2500 copie , in gran parte invendute. Ma se il libro non venisse stampato , Levi lo narrerebbe , lo urlerebbe per le strade , tale è il suo stato d’animo, l’esigenza di raccontare quanto ha visto e vissuto, rendere partecipi gli altri, attaccar discorsi, costringere i suoi interlocutori ad ascoltare, a prendere atto delle tragiche allucinanti avventure nelle quali è incorso.

4.“L’idea di dover sopravvivere per raccontare quanto avevo visto mi aveva ossessionato giorno e notte , per cui posso affermare che il libro è nato nel Lager “, dirà lo scrittore. Ma il successo come tale lo otterrà solo dieci anni dopo, quando , in occasione di una sua conferenza a Palazzo Carignano sulla deportazione e le atrocità dei Lager , l’editore Einaudi decide di pubblicare il libro , che esce contemporaneamente al “Diario di Anna Frank”. Ed è subito un successo straordinario. Il libro viene tradotto in moltissime lingue e ottiene vari riconoscimenti internazionali. Nella sola Germania se ne vendono cinquanta mila copie in tre mesi. “Io non credo – scrive Levi al traduttore della lingua tedesca Heinz Riedt – che la vita dell’uomo abbia uno scopo definito; ma se penso alla mia vita, agli scopi che finora mi sono prefissi,uno solo ne riconosco ben preciso e cosciente, ed è proprio questo, di portare testimonianza, di far udire la mia voce al popolo tedesco , di rispondere al Kapo che si è pulito la mano sulla mia spalla , al dottor Pannwitz, a quelli che impiccarono Ultimo e ai loro eredi…”. Si tratta di personaggi reali che ritroviamo nel suo capolavoro, nato dall’insopprimibile esigenza etica, dall’urgenza e dalla necessità di un obbligo morale, di rendere consapevoli i contemporanei, attraverso la propria testimonianza diretta, di una delle massime atrocità che gli uomini potessero compiere nei riguardi dei loro simili: l’attuazione dei campi di sterminio. Ma il libro nasce anche dalla volontà di cercare di comprendere - “…non posso dire di capire i tedeschi e qualcosa che non si può capire costituisce un vuoto doloroso, una puntura, uno stimolo permanente che chiede di essere soddisfatto – e dalla sua passione del ricordare, che sono doti tipicamente ebraiche. Egli aveva una tale dimensione della memoria, che è anche “trasmissione di una lingua remota dei padri, sacra e solenne, geologica, levigata dai millenni come l’alveo dei ghiacciai”, che lo portava in qualche modo sempre e comunque all’inevitabile missione della testimonianza e della profezia.


5.Ricordare, ricordare per sé e per gli altri compagni innocenti massacrati ; insegnare a tutti come si ricorda, come non si dimentica, come non si deve dimenticare e cercare di studiare e di capire l’uomo: come possa egli, l’uomo degradarsi al più basso livello morale della sua storia, facendo dello sterminio gratuito, della tortura scientifica , dell’abbrutimento dei suoi simili la propria prassi e il proprio ideale. Che cosa ha trasformato quegli uomini in belve? Gli aguzzini del Lager “erano della nostra stessa stoffa, esseri medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi…ma erano educati al male” .
Dunque , individui non diversi da tanti altri , non diversi , forse, da noi, trasformati in spietati carnefici. Per pigrizia mentale, per miope calcolo, per stupidità , per orgoglio nazionale, perché ” erano educati al male”? Ma chi li ha educati al male, e perchè ? “A molti individui o popoli – scrive Levi - può accadere di ritenere , più o meno consapevolmente , che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un ‘ infezione latente…” Ed è su questa infezione latente - che alberga (purtroppo) in ognuno di noi e può manifestarsi in qualunque momento in atti saltuari e incoordinati verso coloro che vediamo come “ stranieri”, o “ diversi”, che dovremmo ancora oggi riflettere, visto quello che si è ripetuto e continua a ripetersi nel mondo anche ora.

6.Levi non è diventato nichilista , né manicheista , si è fatto carico di un giudizio di valori, senza mai perdere di vista la distinzione insormontabile che esiste tra Bene e Male, ma non si è trasformato in rigido moralista ; è riuscito a mantenersi in equilibrio , non idealizzando le vittime e non demonizzando i carnefici , e lo ha fatto attraverso il continuo studio e l’analisi di alcuni aspetti dell’animo umano , ha tracciato una via obliqua verso una nuova dignità , “una cote su cui affilare il cuore e la mente , un crogiolo di purificazione , ma tenuta quasi segreta per evitare ogni retorica. E lo ha fatto con una scrittura che fosse chiara , semplice , perfettamente lucida - “ una scrittura che deve servire a comunicare , a trasmettere informazioni o sentimenti da mente a mente , perché questo è il compito di chi scrive . Se si scrive in modo oscuro, col solo linguaggio del cuore , non si viene capiti da nessuno e non si trasmette nulla, si grida solo nel deserto”. Ed ecco dopo la discesa agli inferi di “Se questo è un uomo “ , “La tregua” , il libro-odissea , il libro del ritorno, inteso come travaglio interiore , lotta contro le memorie , resurrezione alla vita , dove gli episodi , i personaggi, gli incontri, le stesse tappe del viaggio stanno ad illustrare , in chiave emblematica , i momenti cruciali di quel doloroso itinerario che è appunto il recupero dell’io , della propria integrità umana , calpestata e avvilita dalle tremende ferite che Levi ha dovuto subire. “La Tregua “ è anche una salita verso una liberazione che si mostrerà illusoria .

7.“ La libertà , l’improbabile , impossibile libertà , così lontana da Auschwitz che solo nei sogni osavamo sperarla, era giunta; ma non ci aveva portato alla “Terra Promessa. Era intorno a noi, ma sotto forma di una spietata pianura deserta. Ci aspettavano altre prove, altre fatiche , altre fami, altri geli, altre paure” E tutti i suoi libri successivi, fino all’ultimo, “I sommersi e i salvati” , conserveranno quel linguaggio “ chiaro , essenziale , comprensibile a tutti, come le elaborazioni chimiche che hanno una lunga ombra simbolica del ridurre , concentrare, distillare , cristallizzare , “una lunga arringa , - scrive Tzvetan Tudorov , - di chi rifiuta le risposte facili basati su esami frettolosi . Levi non si accontenta di rievocare gli orrori del passato , ma si interroga a lungo e con pazienza sui significati che tali orrori hanno oggi per noi. Sa che le passioni e i comportamenti umani non cambiano mai radicalmente e la storia si ripete; ed è proprio in questo atteggiamento verso il passato che sta la sua lezione più preziosa. Che uomini come Levi abbiano camminato su questa terra , che siano sfuggiti all’insidiosa penetrazione del male che sapevano così bene descrivere , è fonte di incoraggiamento per il lettore di questo libro, comunque sprofondato negli abissi della miseria e nella malinconia . Levi non ce l’ha fatta a sostenere il peso dei ricordi, “ che giacciono in noi e sono incisi sulla pietra” , e che diventeranno man mano talmente ossessivi in lui fino a condurlo all’estrema tragica disperazione del gesto fatale perché sempre, al “superstite” del Lager “ad ora incerta,/quella pena ritorna,/e se non trova chi lo ascolti/ gli brucia in petto il cuore./Rivede i visi dei suoi compagni/lividi nella prima luce,/grigi di polvere di cemento,/indistinti per nebbia,/tinti di morte nei sonni inquieti…. "Indietro, via di qui, gente sommersa,/Andate. Non ho soppiantato nessuno, /non ho usurpato il pane di nessuno,/nessuno è morto in vece mia. Nessuno./Ritornate alla vostra nebbia./Non è colpa mia se vivo e respiro. E mangio e bevo e dormo e vesto panni".
Sarà quest’angoscia senza sosta e senza fine che lo porterà al suicidio, gettandosi nella tromba delle scale della sua casa paterna di Torino, dopo aver salutato e ringraziato con un sorriso gentile la portinaia che gli portava la posta e aver lasciato un ultimo messaggio: “Non dimenticate”...










L'affondamento della Santo Stefano

RECITAL

PERSONAGGI

AMMIRAGLIO NICOLAS HORTY
ATTILIO BISIO
AMMIRAGLIO PAOLO THAON DI REVEL
CAPITANO DI CORVETTA LUIGI RIZZO
CAPO TIMONIERE ARMANDO GORI
CANNONIERE GIORGIO VARCHETTA
GABRIELE D’ANNUNZIO
CAPITANO DI FREGATA COSTANZO CIANO
GIUSEPPE UNGARETTI
PIERO JAHIER
CARLO EMILIO GADDA
COMMODORO SEITZ
TENENTE TITZ
AMMIRAGLIO DAVID BEATTY
NARRATORE
GRUPPO COREOGRAFICO
AUTORE


VOCE F.C.

Quartier Generale Austriaco. 28 maggio 1918.

NARRATORE

L’Ammiraglio Nicolas Horty , nominato da pochi mesi Comandante in Capo della Flotta Austro-ungarica è ancora sofferente per i postumi delle ferite riportate durante il forzamento di Capo d’Otranto dell’anno precedente. Zoppica e talora è costretto a camminare servendosi ancora delle grucce, ma la sua carica vitale è dirompente.


HORTY
Vostra Maestà Imperiale, Signori Capi di Stato Maggiore, ritengo che la prevista offensiva terra-mare per scardinare il sistema difensivo italiano debba essere condotta con il massimo delle forze disponibili.
Dobbiamo travolgere sul fronte del Piave l’esercito italiano e sferrare contemporaneamente un attacco di altrettanta potenza contro la Marina.
Ci ho riflettuto a lungo.
Bisogna colpire Otranto , con la massima potenza disponibile e con estrema determinazione.
Otranto è il punto forte e insieme il punto debole del nemico. Signori, la storia è al bivio: si tratta di scrivere una pagina che resterà decisiva per le sorti di questa guerra.

NARRATORE
Il piano di Horty prevede che la “Viribus Unitis” e la “Prinz Eugen” lascino la base di Pola all’alba dell’8 giugno , dirette verso sud, seguite a poche ore di distanza dalla “Szent Istvan” e dalla “Tegethoff”. Si tratta di quattro corazzate superarmate e poderosamente scortate , con un potenziale distruttivo nel suo complesso terrificante. Attaccare di sorpresa, colpire , forzare lo sbarramento
Antisommergibile di Otranto, costringere il nemico ad uscire dalla tana per portargli un’offensiva forse mortale, questo è il piano dell’Ammiraglio Horty.

HORTY
Abbiamo già dimostrato , con la squadra di Incrociatori , che siamo in grado di forzare lo sbarramento di Otranto. Allora le soverchianti forze nemiche c’impedirono di portare a compimento la missione. Ora colpiremo di sorpresa e in forze. Se riusciremo a sfondare ad Otranto potremo distruggere il grosso della flotta italiana. Perché saranno impreparati, perché saranno sorpresi da tanta audacia, perché saranno soverchiati dalle navi imperiali.
Ma per la buona riuscita dell’operazione occorre innanzi tutto il massimo della segretezza.


NARRATORE
Il comando della spedizione viene affidato al Commodoro Seitz che alza le proprie insegne sulla “Szent Istvan” , formidabile moderna nave di 20 mila
tonnellate , 26 mila cavalli a turbine, 151 metri di lunghezza , 27,30 di larghezza , 20 nodi di velocità, 40 cannoni e 4 tubi lanciasiluri.
La “ Santo Stefano” , una dreadnought, varata a Fiume nel 1911 , rappresenta il vanto e l’orgoglio della marina imperiale austroungarica.

VOCE F.C.
Porto di Pola. 9 giugno 1918

NARRATORE
E’ ormai la notte del 9 giugno 1918 e tutto è pronto per la missione di guerra. Nell’ultima settimana, Seitz ha dato ordini che nessun membro dell’equipaggio avesse licenze o franchigia. Anche la posta in partenza è stata trattenuta dal comando di bordo.
La squadra navale austriaca lascia il porto di Pola con le due grandi navi da battaglia, la “Santo Stefano” e la “Tegethoff”, scortate da una decina di caccia. Sono dirette a sud. Banchi di bassa nebbia indugiano pigri sul mare. Tutte le luci sono spente. Il Commodoro Sietz ha dato ordini perentori: né luci, né rumori. La missione è di vitale importanza, la sorpresa ne è l’elemento fondamentale, essenziale. Gli italiani non devono sospettare di nulla.


VOCE F.C.
Acque di Premuda. Notte tra il 9 e il 10 giugno 1918.

NARRATORE
Nel frattempo , a diverse miglia di distanza, due piccole imbarcazioni oscillano quietamente sul mare. Sono i MAS italiani della Sezione di Ancona, contrassegnati con i numeri 15 e 21 . Si sono staccati dai rimorchi alle ore 21.30 e stanno effettuando una perlustrazione del canale tra le isole di Gruizia e di Premuda. Si tratta di una missione di routine: dragare le acque, con i rampini esplosivi , durante la notte, e ritornare al punto convenuto alle ore 2.30 per far ritorno alla base di Ancona.

AUTORE
Ma cos’erano i MAS, queste pulci del mare che spesso vinsero i giganti?
Ingegnere Bisio, lei che ne fu l’inventore, ce ne vuole brevemente parlare?

BISIO:
Certamente. Il MAS, Motoscafo Antisommergibile, fu progettato con la sagoma bassa e sfuggente sull’acqua , speciali linee di chiglia, e una particolare struttura dei fianchi, perché il pescaggio doveva essere minimo ( non più di quaranta centimetri), ma allo stesso tempo doveva avere un ampio spazio per collocarvi due motori possenti, da 250 HP l’uno, che consentissero di raggiungere velocità elevate, circa 32-35 nodi.

AUTORE:
Per quale tipo di impiego era stato ideato il MAS , ingegnere?

BISIO:
L’impiego originario del MAS era quello di pattugliamento dei canali della laguna veneta e di fungere da estrema difesa contro il naviglio sottile nemico.
Quindi doveva rispondere alle caratteristiche che abbiamo indicato, di velocità, agilità e, per quanto possibile, di invulnerabilità. Soprattutto doveva essere potentemente armato per far fronte a tutti i tipi di nemici, dal sommergibile alle grosse unità.
E’ chiaro che uno scafo del genere non poteva avere che piccole dimensioni e doveva – come ho già detto – essere basso sull’acqua per risultare invisibile, o quasi.
Ne era previsto l’impiego anche come unità d’attacco, con armamento d siluri , di grandi Unità. Ma nessuno di noi poteva sospettare che proprio come tale il MAS sarebbe risultato determinante.


AUTORE
L’equipaggio del MAS era composto da un Ufficiale e due motoristi, un sottonocchiere, un cannoniere, un mitragliere, un prodiere e tre marinai , in tutto dieci persone.
L’Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Capo di Stato Maggiore della Regia Marina Italiana, era entusiasta dei MAS , perché ne aveva intuito le eccezionali possibilità offensive dei MAS, e questo fin dalla loro fase di progettazione.
E’ così, Ammiraglio?

THAON DI REVEL
In verità se avessimo più sommergibili e un’aviazione aerea degna di questo nome sarei molto più tranquillo per l’esito di questa guerra. Dico questo senza voler polemizzare col Duca degli Abruzzi , che è un ardimentoso naturale, un amante dell’avventura legato alle memorie delle antiche tenzioni cavalleresche, e ride di queste mie fisime moderne. Ma io, come Capo di Stato Maggiore della Marina, ho le mie responsabilità e ho il dovere di essere prudente prima che spericolato.E tuttavia vi dico che, in mancanza di sommergibili e aerei, saranno i MAS , questi piccolissimi David , ad atterrare i giganti Golia imperiali. Non a caso tutto lo sforzo della Marina è indirizzato a potenziare tali scafi.
Ora ci vogliono uomini di coraggio e di grande valore. E noi li abbiamo. , Uomini , come il Comandante Rizzo, disposti a tutto per la gloria e la grandezza della Patria.
Ho già telegrafato a Rizzo, che si lamenta di non aver avuto neppure due giorni di licenza per sposarsi. Gli ho fatto sapere che se il nostro “progetto” riuscirà avrà non due giorni, ma una vera licenza per godersi la luna di miele ed anche la promozione a Capitano di Corvetta.

AUTORE
Il progetto di cui parla l’ammiraglio Thaon di Revel in quel freddo autunno
del 1917 fu portato a compimento dall’allora Tenente di Vascello Luigi Rizzo nella notte del 9 dicembre 1917, con l’affondamento della corazzata austriaca “Wien” nel porto di Trieste. E il 12 dicembre “Il Corriere della Sera” riportava la notizia in prima pagina , ma su una sola colonna, il breve testo in neretto diffuso dal Capo di Stato Maggiore della Marina:


THAON DI REVEL
Nella notte dal 9 al 10 dicembre il nostro naviglio sottile aprendosi il varco attraverso le varie ostruzioni sopracque e subacque entrava nel porto di Trieste e lanciava contro due navi quattro siluri: una delle due navi, la “Wien”, è colata a picco. Quantunque fatte segno a lanci di siluri e intenso fuoco nemico, le nostre unità sono rientrate incolumi nelle loro basi.

AUTORE
Una delle più straordinarie imprese della nostra Marina, forse una delle più straordinarie mai compiute da tutte le marine del mondo, veniva liquidata con una notiziola modesta e sobria di poche righe , senza alcun commento trionfalistico. E non veniva riferito neppure il nome di chi l’aveva portata a termine.
Questo era lo spirito della Marina, in perfetta sintonia con quello del suo capo, Ammiraglio Thaon, uomo duro , spigoloso, scontroso, m adi grande coraggio, dignità e serietà.


VOCE F.C.
Acque di Premuda. 10 Giugno 1918. Ore 1.45.

NARRATORE
Intanto Rizzo era stato promosso Capitano di Corvetta e comandava proprio la Sezione MAS che ora si trova in zona di perlustrazione. E’ a bordo del MAS 15 e continua a perlustrare le acque antistanti l’isola di Premuda , unitamente al MAS 21 , al comando del Guardiamarina Giuseppe Aonzo, siciliano come lui. La notte è calma e tranquilla e Rizzo per un attimo si abbandona ai ricordi.

VOCE F.C.
Ricordo di Buccari.

NARRATORE
La sua ultima impresa Rizzo l’ha compiuta insieme a Gabriele D’Annunzio e Costanzo Ciano, nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918, passata alla storia come “La beffa di Buccari”.
Forse ora sta ripensando alle sue indecisioni e perplessità che avevano preceduto quell’impresa rischiosissima e senza una reale contropartita. Sta pensando all’incontro con il Poeta , che ogni mattina gli si presenta pieno di entusiasmo, ricco di energia , invariabilmente eccitato, e gli chiede di salpare. “E allora, Rizzo, quando si va?” Rizzo dice che è una pazzia. Buccali è una gola stretta di mare difesa dalle batterie austriache. E poi cosa avrebbero trovato? A Rizzo piace l’azzardo, ma ci deve essere qualcosa di concreto, qualcosa da affondare. Anche il Comandante Ciano, che comanda la flottiglia MAS di Venezia, è piuttosto perplesso. Ma il poeta insiste. Rieccolo davanti a lui , con il monocolo, eccolo che lo guarda con gli occhi febbrili:


D’ANNUNZIO
Caro Rizzo, l’audacia è dei forti e dei forti è la fortuna.
Brindiamo.
Domani la storia canterà la nostra follia che si è cinta l’alloro della gloria.
Abbiamo un conto da saldare con quelli là.
Lissa.


NARRATORE
A quel nome Rizzo ha sentito una fitta al cuore . Suo zio era morto proprio a Lissa . Ha tirato fuori la carta dell’Adriatico e l’ha distesa davanti al poeta. Stavolta è deciso. Non si torna indietro.

RIZZO:
Dove andiamo?

D’ANNUNZIO
Buccari.
Dove è impossibile entrare e ancora più impossibile uscire.

RIZZO:
Sta bene.
Ora è Ciano che deve decidere.
E’ lui il Comandante.

D’ANNUNZIO
Caro Rizzo nel nostro paese s’ingrossano le vene del disfattismo.
Occorre un’impresa che tiri su il morale e di una iniezione di fiducia e di entusiasmo alle nostre truppe sul Carso.


VOCE F.C.
Sul fronte del Carso.





NARRATORE
Sul Carso, intanto, un altro più giovane poeta, allora sconosciuto, combatteva , soffriva e piangeva per la sorta dei fratelli italiani: il soldato semplice Giuseppe Ungaretti.


( Il gruppo coreografico forma delle figurazioni in base ai testi ungarettiani )


UNGARETTI
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandelli di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

Ma nel mio cuore
nessuna croce manca

E’ il mio cuore
il paese più straziato.



D’ANNUNZIO
Il mattino è nuziale.
Il bacino è cangiante e soave come la gola del colombo.

UNGARETTI
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita.

D’ANNUNZIO
Le case hanno qualcosa di femmineo, simili a donne che si levino sul gomito
e guardino attraverso le cortine d’oro filato.
Scorgo sul cilestrino dell’acque le nostre saettie grigie coi loro siluri dal muso di bronzo.

UNGARETTI
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità

Fratelli

D’ANNUNZIO
Vedo la dirittura della riva, la vecchia pietra degli approdi e delle partenze,
e lungo la riva i marinai allineati, la bella materia eroica.

UNGARETTI
Come questa pietra
del San Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede

La morte
si sconta
vivendo.

D’ANNUNZIO
Parlo agli uomini in riga contro un muro di mattoni che ha il colore del sangue
Aggrumato.
Calcano coi loro calderoni di tela grossa un’erba trista di carcere, mal nata
tra salce e selce. E, il resto dei corpi sembra asciutto e leggero come l’esca,
come una sostanza che pigli fuoco subito.

UNGARETTI
Assisto la notte violentata

L’aria è crivellata
come una trina
dalle schioppettate
degli uomini
ritratti
nelle trincee
come lumache nel loro guscio.
D’ANNUNZIO
Marinai, miei compagni, questa che noi stiamo per compiere è un’impresa di taciturni. Il silenzio è il nostro timoniere più fido.

UNGARETTI
In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinala.

Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio

Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia.

D’ANNUNZIO
Non conviene un lungo discorso a muovere un coraggio che è già impaziente di misurarsi col pericolo ignoto.



UNGARETTI
Sono un poeta
un grido unanime
sono un grumo di sogni.

Sono un frutto
d’innumerevoli contrasti d’innesti
maturato in una serra.

Ma il tuo popolo è portato
dalla stessa terra
che mi porta
Italia.

E in questa uniforme
di tuo soldato
mi riposo
come fosse la culla
di mio padre.

D’ANNUNZIO
Ciascuno dunque oggi deve dare non tutto sé, ma più che tutto sé, deve operare non secondo le sue forze, ma di là dalle sue forze.

UNGARETTI
Su un oceano
di scampanellii
repentina
galleggia un’altra mattina.

D’ANNUNZIO
“Lo giurate? Compagni, rispondetemi!”
E’ E’ come lo scoppio d’una fiamma repressa.
“ Lo giuriamo. Viva l’Italia!”

UNGARETTI
Col mare
mi sono fatto
una bara
di freschezza.

VOCE F.C.
Acque di Premuda . 10 giugno 1918. ore 2.05

NARRATORE
Su quella bara di freschezza che è il mare dalmata, continuano ad allungarsi su Rizzo le ombre dei ricordi, mentre il capo timoniere Gori, il torpediniere Bertucci e i marò Donato e Bagnato continuano a filare in mare i rampini esplosivi . Dietro di loro il MAS di Aonzo è intento alla medesima operazione. Tra poco meno di mezz’ora rimetteranno le prore verso il punto d’incontro con le due torpediniere che rimorchieranno i MAS alla loro base di Ancona.




VOCE F.C.
L’ombra lunga di Buccari.

NARRATORE
Rieccolo D’Annunzio che si reca da Rizzo e Ciano con il rituale carico di champagne . Brindano tutti e tre al grido di “Viva l’Italia”. Ed ecco la sagoma grigia del MAS 96 sul cui paraspruzzi il poeta ha fatto scrivere dal suo fido marò Biancamano “Memento audere semper”
Oh, sì, ricordati di osare sempre!
Ora Rizzo è nella gola oscura di Buccari dove non si riesce a vedere una nave nemica . Chiede il Comandante Ciano , visibilmente contrariato: “ Dove sono le navi da guerra avvistate dal nostro ricognitore?”
Per tutta risposta , Rizzo mormora una maledizione agli austriaci, mentre il poeta è quasi completamente ignaro, a poppa, intento ad armeggiare con le sue bottiglie tricolori.
D’ANNUNZIO
Siamo dentro la baia nemica , proprio in fondo al vallone di Buccali, nella sua estremità settentrionale , di contro all’ancoraggio, inosservati, insospettati. Rizzo mi mormora all’orecchio:

RIZZO
Che bbona gente , questi austriaci!


D’ANNUNZIO
Mi accosta quella sua bietta mal rasa che gli è servita a fendere il fianco della “Wien” con un colpo solo. Ma non dice “buona gente”, in verità. Mi scodella gli attributi di Bartolomeo Colleoni. Gli prendo il polso, glielo tasto. Lui ride, abbassando i lunghi cigli sui suoi occhi saracini. E’ il polso di un arabo che abbia trascorso la sua esistenza a fumare e a sonnecchiare addossato a un muro bianco. Io ho le mie bottiglie sotto mano, pronto alla beffa: forti bottiglie nerastre, di vetro spesso, panciute, col cartello dentro avvolto in rotolo, scritto di mio pugno, scritto di buon inchiostro.
Le ho preparate io stesso…Poso la prima bottiglia nell’acqua , con le sue belle fiamme spiegate.


VOCE F.C.
Acque di Premuda. 10 giugno 1918. ore 3.12



NARRATORE
Alle due e mezzo Capo Gori ha già segnalato a Rizzo l’orario di fine operazioni. Rizzo ha come un presentimento.

RIZZO:
Draghiamo quest’ultimo tratto di mare, mentre dirigiamo per il punto convenuto.

NARRATORE
Il MAS di Aonzo segue quello di Rizzo. Continuano a lavorare indisturbati. Alle ore 2.45 alano i rampini esplosivi per fine ricognizione.
Scriverà Rizzo nel suo rapporto:

RIZZO
Verso le ore 3.15 , essendo a circa miglia 6.5 da Lutostrak , avvisto leggermente a poppavia di traverso e sulla dritta, una grande nuvola di fumo.


VOCE F.C.
Il rompiscatole di turno.

AUTORE
Ammiraglio Horty, se Rizzo si fosse allontanato ancora per un secondo, o forse una frazione di secondo, accelerando con i motori, come previsto da ordine di operazioni, forse oggi si scriverebbe un’altra storia?

HORTY
Egregio Signore , la storia si sa, non è mai fatta con i “se”. Se Napoleone a Waterloo avesse ricevutoi rinforzi, o gettato nella mischia le forze fresche della Vecchia Guardia , anziché tenerla di riserva…E’ certo comunque che il futuro di interi popoli , di centinaia di milioni di persone dipende a volte da un piccolo fattore che inceppa il meccanismo complessivo messo in moto da tanti cervelli che hanno dato il meglio…
Il “rompiscatole” di turno, in questo caso, è Luigi Rizzo, l’eroe dei MAS che noi, purtroppo, ben conoscevamo.
Il bello ( o per meglio dire, il brutto per noi) della situazione è che Rizzo stavolta non sa nulla dell’attacco combinato dei nostri Stati Maggiori, né del mio piano. Si trova lì per caso, una semplice ricognizione. Egli non sa, ma è come un lupo, fiuta, agisce, talvolta senza logica, senza ragione, va con l’istinto che asseconda la sua natura di cacciatore.
Egli è infatti un cacciatore di prede…
Sono pochi questi uomini dotati di quest’istinto primitivo, oserei dire selvaggio, e lui ce l’ha. Purtroppo per noi , sono questi gli uomini che, in guerra, hanno capacità , da soli, di rovesciare l’esito di una situazione fondamentale…
Che devo dirle?
Onore e merito a questi uomini di valore, a qualunque popolo e nazione essi appartengono.


VOCE F.C.
Acque di Premuda. Ore 3.45.

NARRATORE
Sul momento Rizzo non sa individuare chi possa emettere quel fumo, non sa con quale tipo di imbarcazione abbia a che fare. Può arrischiare solo delle supposizioni.

RIZZO
Certamente si tratta di navi nemiche, perché qui di scafi italiani ci sono solo i nostri.
Forse siamo stati avvistati. Magari si tratta di torpediniere austriache uscite da Lussino e stanno per venirci addosso.

NARRATORE
La logica sussurra a Rizzo di far rientro.

RIZZO
Aumenta i giri e muovi rapidamente verso il luogo di appuntamento prima che sia troppo tardi. Non puoi rischiare la vita di 15 marinai che ti sono stati affidati.

NARRATORE
Ma Rizzo non è disposto ad ascoltare fino in fondo la voce della prudenza. E’ un uomo di assalti e se fosse solo lui a rischiare non esiterebbe neppure un istante; il piacere di osare l’attacco al nemico è la gioia più intensa, totale, inarrivabile che egli possa provare. Ma Rizzo non è solo ed è per questo che ha titubanze.

RIZZO
Una torpediniera è il più grave pericolo in cui tu possa incorrere, amico mio, in primis perché è più veloce di te. Ricordati che con quei siluri che appesantiscono lo scafo non puoi fare più di 18-19 nodi. E poi non sei assolutamente attrezzato per contrarla . Non hai armi adatte. Fuggi prima che si avvicinino!

VOCE F.C.
Bordo della Nave Ammiraglia. Ore 4.30

NARRATORE
Nel frattempo che il MAS di Rizzo s’avvicina alla nuvola di fumo, a bordo della Santo Stefano , il commodoro Seitz guarda accigliatissimo le grandi nubi che uscivano dai fumaioli delle sue unità e macchiavano di un nero denso e compatto il cielo.
Era il crepuscolo mattinale. Seitz fa chiamare il comandante della Nave.

SEITZ
Male, malissimo! Quelle nubi nere possono essere avvistate esattamente come la luce di un fanale! Occorre fare qualcosa per eliminarle, o almeno attenuarle. Provveda subito!

VOCE F.C.
Acque di Premuda. Ore 4.35


RIZZO:
Chi può escludere che invece di una torpediniera , si tratti di ben altro, con tutta quella massa di fumo? Chi può escludere che non si tratti di una grossa unità da guerra?

NARRATORE
In Rizzo prevale l’animus del cacciatore che fiuta la preda . Non può resistere , non sa resistere. Ormai ogni dubbio è dissipato , ogni perplessità
è sciolta. Vira di bordo e dirige decisamente verso quella nuvola di fumo sempre più vicina . Lo segue come un’ombra il MAS 21 di Giuseppe Aonzo.
In questa grande impresa di taciturni e silenziosi , sul far dell’alba del 10 giugno 1918 , i due MAS, invisibili sparvieri, con gli equipaggi tesi e pronti al combattimento , passano in mezzo alle grandi corazzate austriache, nere e torreggianti sul mare, opponendo all’aquila imperiale il piccolo ricolorare inclinato a poppavia.

D’ANNUNZIO
La nostra piccola bandiera quadrata si muove come una mano che faccia un continuo cenno. Ha il rosso rivolto verso l’Istria che mi par di rivedere in sogno simile ad un grappolo premuto o a un cuore aperto. L’alba non è uguale per tutti.

VOCE F.C.
Sul Piave. 10 giugno 1918.

L’alba non è uguale per tutti, dice D’Annunzio. E infatti sul Piave il sottotenente Carlo Emilio Gadda e il capitano degli Alpini Piero Jhahier si preparano a fronteggiare l’attacco della fanteria austriaca, chiusi nella loro tenda di campo.



GADDA
Soffro per la famiglia , per la Patria , specie nei gravi momenti: allora, anzi l’angoscia mi prende alla strozza.
Ma il dolore bestiale , il macigno che devo reggere più grave , la rabbia porca, è il mancare all’azione, è l’essere immobile mentre gli altri combattono , è il non potermi gettare nel pericolo ch’ero venuto ad amare sopra ogni cosa.
Certo le mie capacità militari sono poche: ma appena sento il rumore della battaglia, appena i cannoni urlano nelle foreste, una specie di commozione sovrumana mi pervade l’anima: appena la fucileria tambureggiante si fonde in un solo boato, l’ardore della lotta mi prende , sotto forma d’un moltiplicarsi ddell’energia , della volontà, del vigore fisico, dell’entusiasmo…Sotto il fuoco, presente, immediato, provo il tormento che prova ogni animale nel pericolo, ma prima vi è solo il desiderio di fare qualcosa per questa porca patria, di elevarmi nell’azione , di nobilitare in qualche maniera quel sacco pieno di cenci che il destino vorrebbe fare di me.

JAHIER
Altri morirà per le aquile e per le bandiere
ma io per questo popolo rassegnato
popolo che viveva nel giusto e nel giusto muore
senza sapere
anch’io con lui sulla strada della fatica.

Altri morirà per le medaglie e le ovazioni,
ma io per questo popolo illetterato…

Altri morirà per la sua vita
ma io per questo popolo che fa i suoi figlioli
perché sotto le coperte non si conosce miseria,
popolo che accende il suo fuoco solo a mattina,
popolo che di osteria fa scuola ,
popolo non guidato, sublime materia…

GADDA
Vorrei parlarvi ed andare
Compatti dietro il cannone
Veder le granate a smontare
Pezzo per pezzo le corone
Delle trincere
Sopra i colli bruciati.
Avervi compagni, beati
Di giovinezza e d’orgoglio.
All’assalto delle trincere
E lungi dal soglio
Dell’opere prese
Altri monti vedere
Altre schiere
Avverse
Altri cieli senza confine
Altro ridente paese.
Non vedo che un velo
Di nuvole perse
Tetre, nere,
Andare col vento nel cielo.



JAHIER
Sotto, ragazzi,
se non si muore
si riposerà , allo spedale.

Ma se si dovesse morire
basterà un giorno di sole
e tutta Italia ricomincia a cantare.

GADDA
Un solo eroe abbiamo. E non è italiano, ma siculo-arabo. Il suo nome è Luigi Rizzo da Milazzo, e la sua figura d’uomo di azione si leva nobilmente , ed è una delle più splendide del nostro tempo; ed è tragico monito ai babbei impigliati nell’insipienza, nella incapacità di condurre un’analisi che si accosti al reale, e di proseguire conseguentemente ad una determinazione.


VOCE F.C.
Acque di Premuda. Ore 4.40

NARRATORE
Scriverà Rizzo nel suo rapporto:

RIZZO
Decisi di approfittare della luce incerta per prevenire l’attacco: invertivo perciò la rotta, seguito dal MAS 21, e dirigevo sulle unità nemiche alla minima velocità onde non far rumore ed evitare i baffi che avrebbero tradito la mia presenza.

NARRATORE
I baffi non sono ovviamente quelli di Rizzo, ma gli spruzzi d’acqua sollevati dalle prue dei MAS che potevano segnalarli al nemico. Ma Rizzo non sa quali siano le unità nemiche.
Solo quando i banchi di vapore si diradano quasi del tutto s’accorge di stae dirigendo su di una squadra da battaglia.

RIZZO
Dio mio. Di navi così non ne troveremo più. Diamogli sotto, ragazzi.

NARRATORE
I due MAS ora prendono velocità , mentre Rizzo studia la formazione nemica, cerca il punto più adatto per entrare in essa e avvicinarsi alle corazzate. I siluri, infatti, sono regolati a un metro e mezzo di profondità e non riescono a passare sotto la chiglia dei caccia per proseguire la loro corsa verso le navi da battaglia. E’ necessario quindi portarsi più avanti possibile e non avere nessun bersaglio tra il MAS e l’obiettivo.

VOCE F.C.
Bordo della Nave Ammiraglia. Ore 4.55



NARRATORE
Intanto a bordo della “Szent Istvan” , il commodoro Seitz è seduto quietamente sulla plancia e guarda il mare tranquillo. Il fumo si è diradato e comunque tra poco farà giorno . Ma, come se avvertisse la presenza improvvisa di qualcosa di mutato, qualcosa di non chiaro, si volge all’Ufficiale di Guardia.


SEITZ
Signor Titz controlli le posizioni dei cacciatorpediniere.

TITZ
Sì, Signore. Comandi.

NARRATORE
Mentre l’ufficiale di guardia s’affaccia alla murata della Santo Stefano, i due MAS , a 12 miglia di velocità, passano tra due caccia di scorta. Passano via senza essere avvistati. Rizzo sta aggrappato alla battagliola, la faccia bruna sferzata dagli spruzzi salmastri, gli occhi fissi alla mole torreggiante della nave ammiraglia, sempre più grande, sempre più vicina.
Calcola, rapido, preciso, il tiro, l’angolo d’impatto.
Leva la mano destra in alto – la Santo Stefano è a trecento metri, le altre navi austriache continuano la loro rotta, non hanno alcun sospetto - , Rizzo ora abbassa la mano.

RIZZO
Fuori uno!

NARRATORE
Uno scatto metallico , il siluro piomba pesantemente in acqua, comincia a saettare in avanti. Rizzo e tutto l’equipaggio lo seguono trepidanti, ma non aspettano l’impatto. Ecco che Rizzo alza nuovamente la destra, poi la riabbassa di scatto:

RIZZO
Fuori due!

NARRATORE
E mentre il secondo siluro inizia la sua corsa fatale, ordina al timoniere:

RIZZO
Accosta, ora. Andiamo via!

NARRATORE
Il MAS 15 piega bruscamente mentre due scie bianche dei siluri puntano vertiginosamente verso la grande corazzata “Santo Stefano”.
Sono le cinque precise del mattino e il Tenente di Vascello Titz ritorna in plancia per riferire al commodoro.

TITZ
Tutto in ordine, Signore. Tutte le navi sono in vista e la loro posizione…

NARRATORE
Titz s’interrompe : due colpi, due boati, quasi contemporaneamente, esplodono sotto la plancia. La grande nave sussulta. In pochi secondi , ancora prima che il giovane ufficiale possa rendersi conto di ciò che accade, ancor prima che il commodoro Seitz possa affacciarsi alla murata, due gigantesche colonne d’acqua si levano sul fianco della nave, che trema, sussulta e sbanda paurosamente.
Il grido dei marinai si confonde con lo scroscio delle esplosioni .
La Santo Stefano si piega su di un lato, ferita a morte.
Gli occhi di tutti guardano il mare: chi è stato?
Ma non si vede nulla, più nulla. E’ troppo tardi per inseguire un nemico invisibile e crudele che aveva lanciato siluri mortali, un nemico inafferrabile…


VOCE F.C.
Acque di Premuda. Ore 5.05

NARRATORE
Il MAS 15 sfreccia via veloce, compiendo una stretta virata, la prua verso il mare libero, mentre la Santo Stefano continua a sbandare sotto la pioggia d’acqua salmastra. Uno dei caccia di scorta avvista l’imbarcazione italiana, accosta bruscamente , le macchine al massimo, avanti tutta, e con rabbia si lancia all’inseguimento del MAS. Piomba nella scia di Rizzo, a poco più di 100 metri di distanza e comincia a far fuoco.
Dirà Rizzo nel suo rapporto:

RIZZO
Il cacciatorpediniere alla mia sinistra, accortosi del lancio, dirigeva per tagliarmi la ritirata , riuscendo , ad evoluzione compiuta dal MAS, a mettersi nella mia scia, ad una distanza di 100-150 metri. Apriva il fuoco con un solo pezzo, con colpi ben diretti, ma leggermente alti, che scoppiarono di prora.

NARRATORE
Gli altri cacciatorpediniere non riescono a comprendere l’accaduto, ma si serrano, lanciano bombe di profondità attorno alla nave ammiraglia colpita a morte.
“ I sommergibili, i sommergibili!”, grida qualcuno dalla Santa Stefano.
Nessuno pensava che fossero ancora una volta quei piccoli grandi nemici invisibili e inafferrabili , i MAS , che erano riusciti ancora una volta a creare grande scompiglio e panico nella squadra navale imperiale.
Anche il MAS al comando di Aonzo sgancia i due siluri a disposizione contro la “Tegethoff”, ma gli stessi affondano prima ancora di raggiungere il bersaglio.

VOCE F.C.
Bordo della Santo Stefano. Ore 5.10.

NARRATORE
Lo sbandamento cresce di minuto in minuto, ad uno ad uno i suoi compartimenti vengono conquistati dall’acqua. A bordo ora è tornata la disciplina , ma c’è ancora sbalordimento, incredulità, sgomento. La nave s’inclina di minuto in minuto , di attimo in attimo. Il Commodoro Seitz , pallidissimo e muto, è rimasto in plancia.

AUTORE
Cos’era accaduto , Tenente Titz? Ce lo può spiegare?



TITZ
La prima esplosione schiantò la “Szent Istvan” tra i due fumaioli , il secondo siluro colse la carena tra la poppa e il fumaiolo poppiero, in concomitanza con il locale delle caldaie. Furono subito fatte fermare le macchine e seguirono scene di panico. L’Ammiraglio Seitz diede ordine a noi Ufficiali di sparare su chiunque avesse abbandonato il suo posto di bordo. Ciò per evitare che il disastro s’aggravasse ulteriormente a causa delle prevedibili scene di terrore da parte dell’equipaggio.
Ma non ci fu bisogno di nessun intervento da parte nostra.
I marinai dimostrarono un coraggio e una disciplina esemplari , nessuno perse la testa.
L’Ammiraglio tentò di mantenere la nave in linea di galleggiamento , fece rimettere in moto le macchine e chiese alla “Tegethoff” di venirlo a prendere a rimorchio.
Ma ormai era troppo tardi, le paratie stagne cedevano, la quantità d’acqua imbarcata divenne presto enorme . Alle cinque e venti del mattino, Seitz comandò che venissero calate a mare le scialuppe e dichiarò l’abbandono nave.
L’estrema agonia della “ Szent Istvan “ cominciava in quell’istante.
Il cappellano benedisse l’equipaggio e i marinai con il cuore stretto inun amorsa d’angoscia risposero tutti in una sola voce: “Hurrà!”


VOCE F.C.
Bordo della Tegetthoff . Ore 5.55

NARRATORE
Dalla corazzata “Tegethoff” , i marinai assistono muti e immobili alla tragedia. Vedono il lento scomparire della Santo Stefano alla luce di un mattino crudelmente luminosissimo. I marinai della nave ammiragli morente si lanciano dall’alto delle murate , toccano l’acqua con fragore , poi cercano salvezza e soccorso. Le scialuppe s’allontanano rapidamente dal luogo della catastrofe.
Sono le 6.05 del 10 giugno 1918, quando la corazzata scompare , inghiottita dalle acque di Premuda in un immenso vortice gorgogliante di flutti.
I marinai della Tegethoff guardano esterrefatti e commossi . Piangono. L’Ammiraglia non c’è più. Non sanno che fare. Uno di loro si leva il berretto, un altro lo imita. Allora pian piano tutto l’equipaggio della corazzata superstite si leva il berretto e urla in una sola voce: “ Hurrà!”
Il Commodoro Seitz , da bordo della Tegethoff , dove si era trasferito, telegrafa ad Horty la notizia del siluramento e dell’affondamento della corazzata. Nella sciagura oltre cento marinai austriaci avevano perso la vita e circa trecento erano i feriti.


VOCE F.C.
Ricordo di tutti gli scomparsi in mare.

AUTORE
Anche la flotta italiana aveva perduto due corazzate , la “Brin” e la “Leonardo”, entrambe sabotate nei porti di Brindisi e di Taranto nel settembre del 1915 e i morti erano stati complessivamente più di settecento.

Ecco come ricorda tutti i marinai scomparsi , di qualunque epoca, di qualunque nazione, razza, religione essi appartengano, in qualunque latitudine essi abbiano trovato la morte, uno di loro, un sopravvissuto :

1^ VOCE RECITANTE
Se come nelle guardie sul ponte mi apparite
perché, amici, siete muti con me?,
il vostro compagno di guardia, tanto tempo fa…

Voi che sul mare tenebroso
alzavate così chiare le vostre voci
bastioni sonori quando cantava la tempesta
issando la vela di fortuna risuonava
sul mare il vostro coro partecipe
“ La vita è tempesta, tempesta sia!”

2^ VOCE RECITANTE
Ogni cosa per voi era frutto del destino,
la guardavate come bambini voi che
misuravate sulle vostre palme il mare
e non eravate troppo legati alla vita,
voi che le vostre vite tenevate in mano.
Oh, la memoria non è stata leggera, non si è
sbarazzata di voi, non vi ha perduti
come motivi inutili , dimenticati,
né il cuore insuperbito ha cercato
l’accordo su altre musiche, ma numerosi
qui accanto, senza mai invecchiare
- la vostra innocenza vi mantiene giovani –
come marea che penetra le insenature, o corrente,
voi venite , voi mi visitate, e sembrate
affiorare da un mare di volti stranieri
innumerevoli tracciati dalla memoria
per avvilupparmi in un sogno…


1^ VOCE RECITANTE
E dove siete, voi marinai soldati
se ora nessun tamburo rintrona a quartiere
sui deserti delle acque di mezzanotte
- quando un nemico affiora dalle spume –
con la vostra lanterna di passerella, lampeggiante
cercherete inutilmente di scrutare in basso
quando, chinati dalla plancia baluginante,
un fratello vedrete inabissarvi nel buio?

2^ VOCE RECITANTE
Ma voi , compagni d’arme, squassati
In vele perforate, se nella lunga veglia,
nel fondo mai più il grido” Tutti alle vele!”
potrà spezzare l’incanto che ammalia il vostro sonno
e le trombe che adunano alla battaglia suoneranno invano

e invano imploreranno i cannoni tuonanti
un battito, un battito di cuore nel grumo del cuore
batte e chiama. Ma per fermarvi,
aggrapparsi, fissare sempre,
vedervi alla vela maestra
sentire, ancora una volta, il vostro coro!


VOCE F.C.
Quartier Generale dell’Impero Austro-Ungarico.




NARRATORE
Horty è incredulo, esterrefatto, annichilito. E’ la fine del suo piano, è la fine di tutto. Riferisce a Carlo d’Austria e ai Capi di Stato Maggiore, poi, nel pomeriggio invia la sua risposta a Seitz:

HORTY
L’azione non verrà eseguita. Rientrate a Pola con tutte le unità.




NARRATORE
Due ufficiali del controspionaggio austriaco saranno messi al muro, accusati di aver tradito e aver trasmesso all’Italia i dati sull’attacco a Otranto. Erano innocenti. Né i servizi segreti francesi, né quelli italiani sapevano nulla del piano di Horty.

VOCE F.C.
Londra. Ammiragliato.

NARRATORE
Da Londra il comandante in capo della “ Grand Fleet”. Ammiraglio David Beatty telegrafa subito a Thaon di Revel:



BEATTY
La Grand Fleet porge le più vive congratulazioni alla marina italiana per il magnifico risultato conseguito con tanto valore e audacia contro il nemico austriaco.


VOCE F.C.
Acque di Premuda . Ore 5.20

NARRATORE
Il MAS 15, dopo l’affondamento, continua a fuggire inseguito dalle rabbiose cannonate del cacciatorpediniere austriaco, tutte ben dirette, ma sempre un poco alte per quel diavolo di Rizzo, che sembra invulnerabile.
Il MAS 15 sfreccia sotto una pioggia d’acqua calda e lo scroscio delle granate.

CANNONIERE VARCHETTA
Sparo, Comandante?




NARRATORE
Alla richiesta del suo mitragliere, aggrappato alla sua arma, Rizzo scuote il capo: il fuoco degli spari avrebbe permesso ai cannonieri del caccia di aggiustare la mira. Il comandante dà ordine al suo timoniere:

RIZZO
Continua così! Teniamolo nella nostra scia…Fuori una bomba di profondità.
NARRATORE
La grossa bomba schizza in alto e ruzzola in mare. Rizzo la vede ondeggiare, mentre il caccia continuando la sua corsa dirige diritto su di esso.

CAPO GORI
Non è esplosa, comandante!

RIZZO
Fuori l’altra!

NARRATORE
La seconda bomba cade in acqua e stavolta scoppia a pochi metri dalla prua del caccia austriaco che smette di sparare e accosta, rinunciando all’inseguimento. Precisa Rizzo nel suo rapporto:

RIZZO
Esso accostò immediatamente di novanta gradi ed io, con accostata a sinistra, ne aumentai rapidamente la distanza perdendolo poco dopo di vista.





NARRATORE
Il MAS 15 , seguito dal MAS 21, in breve s’allontana. Pochi istanti ancora e le due imbarcazioni italiani non sono che due piccoli punti sul mare.

Quando ormai sono del tutto fuori pericolo, continuando a navigare a tutta forza verso il largo, Rizzo e i due equipaggi dei MAS traboccano di orgoglio e di fierezza. Sanno di aver compiuto una grande impresa. Sanno di aver affondato una grande nave da battaglia, ma non sanno di quale nave si tratti, se la Santo Stefano o la Tegethoff. La loro gioia è muta e tuttavia irrefrenabile.
Per Rizzo è la seconda corazzata austriaca che manda a fondo , in solo sei mesi
Lancia verso il cielo tre razzi bianchi e uno verdi. Il segnale significa: “ Ho silurato una nave”.
E’ ormai l’alba piena del 10 giugno 1918 e nel cuore di tutti i marinai che hanno partecipato alla grande impresa:
Capo timoniere Armando Gori
Cannoniere Giorgio Varchetta
Fuochista Salvatore Annaloro
Fuochista Giuseppe Decano
Torpediniere Eraldo Bertucci
Marò Letterio Donato
Marò Francesco Bagnato

imbarcati sul MAS 15

Guardiamarina Giuseppe Aonzo
Nocchiere Luigi Rossi
Cannoniere Quirino Captano
Torpediniere Bruno Santarelli
Torpediniere Lorenzo Feo
Fuochista Giovanni Callipari
Fuochista Ugo Tomat

imbarcati sul MAS 21

nei loro cuori di marinai fiorisce spontanea una muta preghiera di ringraziamento.

A te , o grande eterno Iddio,
Signore del cielo e dell’abisso,
cui obbediscono i venti e le onde,
noi, uomini di mare e di guerra,

Ufficiali e Marinai d’Italia,
da questa sacra nave armata dalla Patria,
leviamo i cuori.